STARTUP | BePart
intervista a BePart di CARLOTTA PETRACCI
Parafrasando e attualizzando l’affermazione di Ludwig Wittgenstein, secondo cui i limiti del nostro linguaggio sarebbero i limiti del nostro mondo, ci domandiamo: che cosa succederebbe se potessimo installare nel cielo di una zona rossa della Siria una colomba bianca? Ci piace partire da qui per raccontare la storia di BePart, una piccola start app milanese che ha creato una app che ripensa completamente il concetto di spazio espositivo e di arte pubblica. Grazie alla realtà aumentata non ci troviamo più di fronte alla contrapposizione tra spazio fisico e immateriale, bensì in un terzo spazio potenzialmente infinito che nasce dalla loro integrazione e che fa cadere completamente il concetto di confine geografico, linguistico e mentale, in nome dell’arte. O meglio, della possibilità di disseminare simboli, suoni e opere in ogni luogo della città e del pianeta, creando un gigantesco museo in fieri, che le persone possono esplorare semplicemente attraverso uno smart phone.
Realtà virtuale e realtà aumentata. Se diversi anni fa, con l’esplosione di Second Life la riflessione sugli spazi di fruizione dell’arte andava nella direzione dell’esplorazione della rete, intesa come luogo completamente altro dove nuove politiche, dinamiche e sperimentazioni potevano esprimersi. Ora, grazie agli smart devices, si sta verificando un importante ritorno alla realtà. Questo clima tecnologico ha influenzato in qualche modo la nascita di BePart?
BePart nasce come un progetto visionario orientato alla partecipazione della cittadinanza all’interno dello spazio urbano. Il punto di partenza non è stato: la realtà aumentata o quella virtuale, che rappresentano dei mezzi o dei linguaggi molto funzionali. La nostra idea era quella di creare un gigantesco database di contenuti che trovasse nella città, tanto quanto nel mondo, uno spazio espositivo potenzialmente infinito. Lo sviluppo in una direzione tecnologica è arrivato dopo. Viviamo in un momento storico in cui c’è un’evidente saturazione di hardware e di contenuti, che corrisponde anche a un loro utilizzo e fruizione piuttosto superficiali. Per cui affermare che le città sono delle opere d’arte in continua evoluzione e cercare di tradurre questa visione in qualcosa di concreto, attraverso la partecipazione collettiva e l’accessibilità, ci ha portato a sviluppare una app e una piattaforma che permettessero alle persone di riappropriarsi dello spazio urbano: da un lato, producendo opere d’arte che si integrassero nel suo paesaggio, dall’altro incontrando l’arte in maniera molto più immediata e interattiva.
Si tratta di una evoluzione dell’idea di arte pubblica. Giusto?
Assolutamente sì. È una sorta di Keith Haring contemporaneo: un progetto che nasce dal basso e che prevede la disseminazione dell’arte nelle strade attraverso la tecnologia, creando una terza città che nasce dal dialogo tra la città fisica e quella digitale. Praticamente il concetto di smart city applicato a cultura e creatività.
Come dire: non guardiamo più semplicemente il mondo online ma arricchiamo, letteralmente, aumentiamo la realtà con contenuti site specific suggerendo un viaggio. Siete partiti con opere d’arte visiva e video ma come può evolvere il progetto?
Se per evoluzione intendi, maggiore interazione, va detto che la prototipazione delle idee quando c’è di mezzo la tecnologia richiede tempi molto lunghi, perché bisogna far sì che quello che pensi possa essere diffuso e supportato dai cellulari di tutti. Se invece parli di altre forme d’arte, stiamo già ampliando i confini della sperimentazione. Uno degli ultimi progetti che stiamo portando avanti coinvolge un producer musicale, che sta creando un sistema di pattern sonori, assimilabili a dei veri e propri quadri emozionali, che cambiano a seconda dello spostamento all’interno della città. Abbiamo inoltre recentemente realizzato una app custom per il carnevale di Venezia cercando, attraverso la realtà aumentata, di far incontrare tradizione e innovazione in una digital masquerade animata. E potremmo continuare oltre, perché le potenzialità sono infinite nel momento in cui a contare è l’immaginazione.
È questo il senso che attribuite allo statement “The Public Imagination Movement”?
Come dicevamo prima, BePart è un progetto scalabile, che parte dalla città come unità minima ma che può diventare globale, proprio attraverso l’immaginazione. Oggi non siamo ancora nella direzione del movimento, ma sicuramente è una tensione che ci accomuna. Stenderemo a breve un manifesto, ma questo movimento nasce dalla condivisione di una interpretazione di BePart come linguaggio artistico prima che come applicazione digitale. È il concetto di ponte che fa esplodere le opportunità dell’immaginazione condivisa. Non solo perché vengono realizzate delle installazioni in diverse città che, grazie ai contenuti digitali, vengono messe in rete formando un gigantesco museo in fieri ma anche perché diversi artisti stanno manifestando l’esigenza di pensare le loro opere d’arte a partire dalla realtà aumentata. Sono quindi i confini dell’immaginazione e dello spazio espositivo che si ampliano e che viaggiano su altri canali, che non sono esclusivamente la città fisica. Facciamo un esempio concreto: pensiamo di installare una colomba bianca nel cielo di una zona rossa della Siria, a cui nessuno ha accesso tranne i soldati e la popolazione che la abita. Lo possiamo fare grazie al Gps integrato nella app. In questo modo noi consentiamo all’arte di scavalcare qualsiasi tipo di barriera: fisica, concettuale, geografica, sociale, attraverso un semplice smart phone, che, puntato verso il cielo, ci consente di vedere quell’opera. Probabilmente è questo l’aspetto più innovativo di BePart, l’idea di trasformare la realtà in un’opera d’arte vivente eliminando completamente il concetto di confine.
Info: https://bepart.net/