MILANO | Galleria Giovanni Bonelli | 12 marzo – 11 aprile 2015
Intervista a FEDERICO MAZZONELLI di Matteo Galbiati
In occasione della mostra Behemoth. The deep surface alla Galleria Giovanni Bonelli di Milano abbiamo intervistato il curatore di questa rassegna che pone attenzione sull’indagine dell’opera d’arte nel suo valore sensibile e percettivo. Attraverso lavori di grandi artisti, italiani e internazionali, di riconosciuta fama, l’osservazione si svolge attraverso la mobilità strutturale delle loro superfici, spazi dove le pulsioni e i sentimenti hanno modo di dilatarsi e svilupparsi prendendo, al contempo, intese forme concrete e altrettante prefigurazioni immaginarie.
La parola al critico Federico Mazzonelli:
Il titolo della mostra rimanda a Behemoth, un pesce fantastico annoverato da Jorge Luis Borges nel suo Manuale di zoologia fantastica. Perché questo riferimento?
La mostra nasce da una fascinazione per gli scritti e la figura di Borges, per l’intelligenza e la sensibilità con la quale ha saputo lavorare i materiali dell’immaginario. La condizione del suo lavoro, della sua poetica, consiste spesso nella dimensione irreale dell’oggetto unita alla possibilità di definirlo, avvicinarlo, descriverlo come se fosse reale. In questo scarto, in questa finzione pensata e quasi vissuta come realtà, risiede la dimensione, la cifra poetica della sua scrittura. Nel Manuale di zoologia fantastica Borges lavora materiali inesistenti, o poco esistenti, come gli “animali sferici”, la statua sensibile di Condillac o il Pinnacle Grouse che “aveva un’ala sola, che gli permetteva di volare in una sola direzione, per cui faceva infinitamente il giro d’una stessa montagna conica”. La mostra è dunque un tentativo di lavorare sulla possibilità di far emergere, nella visione dei lavori, la materia, insieme fisica ed irreale, delle loro immagini.
Il pesce borgesiano esce dall’oscurità dell’acqua, cosa contempla? In che posizione si mette quindi l’osservatore-visitatore della mostra?
Il pesce scopre la mutevolezza della superficie del mare, una visione caleidoscopica, colori e forme che cambiano per intensità e sostanza. Allo spettatore si chiede solamente una certa disponibilità nel compiere questo percorso, nella speranza che la disponibilità si traduca nel piacere di abbandonarsi ad un orizzonte visivo mutevole, metamorfico, lungo il quale ritrovare le sue suggestioni.
Su che direttrici intende, allora, proporsi, attraverso le opere esposte, questo progetto? Su quali assunti si sofferma?
La mostra non ha pretese filologiche e non ha un assunto critico “forte” dal quale prendere avvio, ma non è neppure guidata dal semplice gusto per l’estetismo. Lungo il percorso ci saranno dei fogli sui quali si trovano degli estratti presi dal libro. Il visitatore può leggerli e utilizzarli come altro elemento per guardare le opere; è invitato a farlo, ma non è un passaggio obbligato. Può anche portali a casa, leggerli quando vuole e magari la loro lettura darà vita a nuove associazioni e nuovi pensieri. Non si tratta di testi che illustrano le opere o che ne richiamano aspetti particolari, piuttosto di una serie di “appunti” che possono funzionare sia sul piano visivo che su quello testuale. Visione e lettura restano in qualche modo sospesi, entrambi frammentari, ma concorrono a definire un’organicità dell’insieme.
Quali artisti hai scelto e per quali ragioni hai pensato a queste opere nello specifico?
Più che sugli artisti, la cui poetica e la cui complessità non possono essere ridotte ad una o più opere presentate in una mostra collettiva come questa, ho lavorato sulle opere singole. È stato curioso e stimolante lavorare sulle qualità che presentavano e sulle possibilità di innestare dei “dialoghi” tra opera e opera, tra le visioni singole e la visione complessiva del percorso che si va creando. Ne emergono non tanto i loro valori formali, ma la loro intensità, le loro temperature. Penso, per esempio, all’ironia e alla sensibilità con la quale la pittura di Aldo Mondino trasforma semplici tavole di eraclite nei preziosi cromatismi dei tappeti orientali, e, al suo fianco, la geometria policroma e raffinata di una composizione di Philip Taaffe, come una sorta di piccola finestra sottratta ad un’architettura “moresca”. Sono presenze assai diverse ma convivono, con una certa felicità e leggerezza.
Come dialogano, tra loro in un percorso che si orienta su due opposti fronti quali quello della concretezza e dell’evanescenza, artisti e opere assai diversi per poetica, percorso, materiali…?
Credo sia interessante il fatto che alla base della ricerca artistica in generale ci sia un lavoro che parte dalla materia e da una sua manipolazione. Anche nella fotografia o nel cinema in fondo il rapporto con la luce, che per quanto evanescente e impalpabile ha una sua fisicità, diviene centrale. Questo dialogo tra “concretezza ed evanescenza” si ritrova in questa mostra proprio in rapporto all’aspetto “alchemico” della pratica artistica, per usare una terminologia vicina a Borges, la trasformazione della materia in immagine. È un passaggio legato ai sensi, alla fisicità degli elementi che gli artisti manipolano, ma che nello sguardo dello spettatore può acquisire una profondità psicologica ed emotiva. La tecnologia ci fornisce la possibilità di creare una vasta biblioteca visiva ma spesso a rischio di una certa virtualità. Ricordo la prima volta che vidi dal vivo la cappella di Ronchamp di Le Corbusier, era molto diversa da come l’avevo immaginata pochi anni prima sul volume di Argan. Mancavano il cielo dell’Alsazia, le nuvole che lo attraversano, i continui cambi di luce che modulano i volumi della chiesa.
Avete parlato di “precedenza al puro dato visivo dell’oggetto artistico”, cosa intendete dire?
In effetti suona un po’ retorico, ma era quello che dicevo sopra, ovvero partire da un piacere tutto sommato visivo, oggettuale in quanto fisico, per poi però ribaltare la questione, lasciando che lo sguardo e la superficie sconfinino, in modo da restituire allo sguardo una sua lentezza, una sua profondità.
Behemoth. The deep surface
a cura di Federico Mazzonelli
Artisti: Carla Accardi, Pierpaolo Calzolari, Peter Halley, Luigi Mainolfi, Aldo Mondino, Robert Pan, Piero Pizzi Cannella, Carol Rama, Mario Schifano, Peter Schuyff, Ettore Spalletti, Philip Taaffe, Marco Tirelli
12 marzo – 11 aprile 2015
Inaugurazione giovedì 12 marzo 2015 ore 19.00
Galleria Giovanni Bonelli
via Luigi Porro Lambertenghi 6, Milano
Orari: da martedì a sabato 11.00-19.00
Info: + 39 02 87246945
info@galleriagiovannibonelli.it
www.galleriagiovannibonelli.it