Intervista a BEATRICE SCACCIA di Daniela Trincia
Giunta a New York già da “due anni e due mesi”, Beatrice Scaccia si è lentamente introdotta nelle maglie della quotidianità della Grande Mela che mantiene intatto il suo simbolico fascino di novità e di libertà, nonostante il fiorire di nuovi ed energici centri attrattori. Nata a Frosinone nel 1978, è con l’assegnazione nel 2009 di uno studio per tre mesi nel Lower East Side Printshop di Manhattan che Scaccia ha i primi contatti con New York. Conoscenze che la sproneranno a presentarsi successivamente alle porte di uno tra i più famosi studi, quello di Jeff Koons che, in seguito a scambi di mail e colloqui, la chiamerà nel 2011 appena un posto diventa vacante. Dall’iniziale esordio con lavori di incisione, gradualmente l’attenzione di Scaccia si è spostata verso altre tecniche, anche più articolate, come l’animazione. Dopo la mostra, Perfect Stage, negli spazi di Bosi Contemporary, a febbraio 2013 , nei suoi programmi futuri ci sono una residenza di due mesi nella Residency Unlimited e una personale nella 41artecontemporarea di Torino. Ma è la stessa Beatrice Scaccia a raccontare la sua avventura…
Sono più di due anni che sei a New York, anche se all’inizio eri piuttosto titubante…
Sì, all’inizio non mi andava molto, però poi ha vinto la curiosità per un luogo che permette il confronto con persone provenienti da tutto il mondo. E, grazie al lavoro, ho conosciuto genti di altre culture che non mi hanno mai fatto rimpiangere la mia scelta.
Come si svolge la tua “giornata tipo” nella Grande Mela?
New York è una città molto difficile, richiede molto lavoro. La mia giornata comincia alle 5.30 del mattino, perché alle 7.00 devo essere presente allo studio. L’orario è flessibile ma io preferisco iniziare presto così, dopo le mie otto/dieci ore di lavoro, mi rimane sufficiente tempo da dedicare ai miei progetti.
Come sei approdata allo studio di Jeff Koons? Hai contatti diretti con lui?
Durante un workshop, cui ho partecipato circa tre anni fa, ho conosciuto una persona che lavorava nello studio che mi ha consigliato di visitarlo. Così ho fatto. Ho ottenuto un colloquio col manager dello studio che ha visionato il mio portfolio giudicandolo positivamente. Ma, in quel momento, non avevano necessità di collaboratori. Quando però si è liberato un posto mi hanno chiamata. Non ho contatti diretti con Koons. Ogni giorno è presente ma, essendo lo studio organizzato come un’azienda, Koons ha il suo “ufficio” mentre noi collaboratori lavoriamo in altri ambienti. E da lui si apprende una profonda professionalità.
Osservando i tuoi ultimi lavori per la personale The Perfect Stage nella Bosi Contemporary si nota l’introduzione del colore: è una novità “americana”?
Più che novità è un ritorno. Perché prima dipingevo. Per trovare la mia strada, ho tolto tutto per dedicarmi solo al disegno per poi reinserire gradualmente il colore. Però solo il rosso fiammingo, quello che utilizzavo per le velature. La vera novità è aver iniziato a lavorare con l’animazione.
Con il movimento…
Sì, perché penso che il mio percorso sia sempre più narrativo, per me richiede azione e, per questo, sto frequentando un corso di animazione alla School of Visual Art. Ciò spiega anche la presenza di una voce fuori campo che unisce voce e scrittura. E sto anche pensando alla realizzazione di pupazzi, che ammettono anche una certa libertà di azione, da utilizzare per queste animazioni. Quindi nulla è statico e nessun disegno è a sé ma parte di una storia. Inoltre sono sempre più interessata all’installazione che il video consente. Sono cioè interessata ai concetti di spazio e tempo. Con l’istallazione si crea uno spazio che avvolge lo spettatore e aiuta a dare un’idea di memoria, e quindi tempo.
Ma di ogni soggetto è impossibile definirne la fisionomia…
Non mi interessa la fisionomia perché è un personaggio di una storia più universale, e più non è dettagliato più è partecipe alla narrazione. È come un involucro. Altro elemento è il gioco. Nell’ultima mostra infatti il personaggio “saltava” su un letto, che è un’azione personale ma che chiunque da bambino ha compiuto.
Così carico di vestiti, il protagonista appare piuttosto come uno gnomo curioso, che indaga se stesso, la propria sessualità…
Sì, ancora non sa cosa fa. Questo perché mi piace giocare su livelli diversi, anche di significati. E il letto è anche il luogo che solitamente è associato alla sessualità.
Ma è una sessualità che è nascosta dietro strati di vestiti…
Perché non è importante conoscerla e perché mi piace anche quest’ambiguità. Mi capita infatti di pensare prima a come vestire il personaggio e poi all’azione che voglio fargli compiere. Perché tutto si ricollega alla mia ricerca sulla “maschera”: tutti siamo coperti sempre da qualche altra cosa, che sia ruolo sociale o abbigliamento ed è questa idea che poi diventa gioco.
Perché, cosa vorresti scoprire?
Difficile rispondere. Penso che si lavori sempre per risolvere dei problemi ma le risposte sono difficili. È complicato definire il profilo di una persona e spesso l’ambiguità ci porta a distruggere, a nascondere, a evadere, si indossano più vestiti per confondere ancora di più. E il gioco aiuta a perdere di vista la logica. Confrontandomi con altri artisti ho infatti notato che molti pensano troppo a cosa vogliono dire e a come esprimerlo, invece io faccio esattamente il contrario.
Disegni su materiali delicati come carta giapponese, come mai?
Perché mi interessa usare cera d’api che consente di ottenere una doppia faccia dell’immagine, una sorta di riflesso che conserva una doppia identità, e questo tipo di carta lo permette.
Info:
Bosi Contemporary, New York
www.bosicontemporary.com