MILANO | The Mall | 11 – 13 aprile 2015
#aspettandoMIA #waitingforMIA
Intervista a GIANLUIGI RICUPERATI di Luisa Castellini
È il testo più citato (e letto!) dagli amanti della fotografia. A cent’anni dalla nascita del suo autore, Roland Barthes, MIA Fair presenta tre serate a cura di Gianluigi Ricuperati per ripensare La Camera Chiara tra le parole e le immagini di ieri e di oggi. Punctum e Studium, quindi, ma anche Instagram e Selfie per ricordarci che la Fotografia di “disciplinato” non avrà mai nulla.
Che cosa resta della lezione di Barthes nella pratica artistica odierna?
La maggior parte dei concetti de La Camera Chiara sono attuali ancora oggi, nell’epoca in cui le istituzioni della fotografia (penso alle fiere, ma anche a nuove esperienze come “Camera” a Torino) non possono fare a meno di considerare che Instagram è per trecento milioni di individui “la fotografia”. Non solo “punctum” e“studium”: pensiamo per esempio all’idea di “effetti di realtà”. La fotografia tende a non farsi più esatto specchio della realtà, se non fosse per alcuni dettagli che ci riportano al “reale”.
Su quali nodi della Fotografia si soffermerebbe oggi Barthes? E come risponderebbe alla proliferazione di Selfie?
Mi piace pensare che tornerebbe ad approfondire il fenomeno contemporaneo del fotografare per ritenere memoria ed esprimere vanità: essere aggressivi e passivi, mercanti nel tempio dell’insicurezza altrui. Questo succede nelle foto delle celebrities, come Giammetti, su Instagram – ma anche nelle vite di tutti noi – ed è un limite che dobbiamo superare se vogliamo conservare quella carica di utopia che fa parte dell’eredità barthesiana. Oggi la fotografia si fa appunto quotidiano, presenza estesa del corpo-mente condiviso. È memoria immediata e ribattuta, ovviamente “idiota”, nel senso privata e stupida insieme, ma anche interessante. E sicuramente i selfie affascinerebbero Barthes in modo radicale.
Digitale e postproduzione non hanno, per alcuni versi, ancora intaccato il noema della Fotografia ricamato da Barthes nel suo “è stato”, e il fruitore mantiene una certa innocenza visiva. Quali aspetti rilevati da Barthes si sono palesati in tutta la loro forza?
La teoria di Barthes è ancora attuale, e la si ritrova potente nell’attenzione al punctum dell’immagine fotografica. La fotografia si fa urgenza e poesia. Il reale non ci interessa più, interessa soltanto ai fotoreporter di guerra, che vivono in una dimensione di delirio e paura che ha più a che fare con l’immaginario di Hunter Thompson che con la poetica del “testimone”. Tutti cerchiamo in un’immagine il contatto umano con chi l’ha presa – è una stagione nuova. E non dimentichiamo il senso di morte che emerge dalla maggior parte delle immagini sui social: sono graffiti già pronti per l’archeologia, monumenti teneri della mancanza di consapevolezza, corpi degradati e pose ridicole che però producono una strana forma di poesia. È certamente un modo molto meno colto di praticare la fotografia, rispetto a quello di Barthes, che per ragioni storiche e anagrafiche ne ha solo visto l’inizio.
Come si riconfigurano la nostalgia e l’anacronismo delle immagini?
L’espansione sociale della fotografia è sempre stata legata al turismo e al lutto. Vacanze e cimiteri sono campi di battaglia per pensare alla fotografia e i social network, con le loro pose sgraziate e talvolta magnifiche, nelle quali l’ordine economico insieme si nega e si conferma con ancora maggior potenza, sono colmi di voci rappresentate nella loro presenza fisica, che sembrano gridare, barthesianamente: siamo stati qui, ci siamo stati!
Come si articolano gli incontri proposti al Mia?
Sono felice di rileggere Barthes con figure contemporanee, che sono alcuni fra i nipotini, e che oggi, se fosse ancora vivo, lo guarderebbero come un eroe da intervistare e venerare.
“Le grain de la voix. Pensare a Roland Barthes nel XXI secolo” vede il critico e curatore Hans-Ulrich Obrist leggere alcuni passi da La camera chiara e Miti d’oggi insieme a Alice Rawsthorn, firma dell’International New York Times e uno degli amministratori della galleria Whitechapel di Londra. La serata “Nadar Radar Proust. Le intermittenze del cuore” è dedicata al rapporto tra Barthes e Proust con lo studioso Giuseppe Girimonti Greco e le proiezioni curate da Lucia Orsi. Il terzo evento sarà un atto rivoluzionario: con Marco Cendron di Galerie Pomo, Guido Costa e Giovanna Silva riattualizzeremo l’apparato iconografico del libro con fotografie di oggi.
Riprendendo uno dei temi degli incontri, a quali “exempla” potrebbe ricorrere Barthes oggi?
Si soffermerebbe su quei piccoli dettagli che ci fanno credere di coincidere con noi stessi. Le pose o quel senso carnevalesco del cucirsi una maschera, un po’ come nell’episodio proustiano del mancato riconoscimento della nonna ritratta in una posa lontana dalla sua essenza. Vorrei pensare che riprenderebbe le riflessioni di Douglas Coupland sui selfie tridimensionali. E nella mia veste di autore letterario, direttore di scuola, curatore ossessionato dal dialogo tra discipline, non posso non credere fino in fondo che Barthes abbatterebbe tutte le pareti che confinano la fotografia in un “discorso” disciplinato, consolatorio. La fotografia è quella cosa che inizia quando è uscito dalla stanza chi pensa solo alla fotografia.
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