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ROMA | Museo Orto Botanico | Fino all’8 settembre 2024

Intervista a SILVIA CINI di Daniel Borselli

Il progetto Avant que nature meure, tra i vincitori dell’Italian Council (11 edizione, 2022), il programma di promozione internazionale per l’arte contemporanea italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura ha permesso la realizzazione di un’opera destinata all’Istituto Centrale per la Grafica. Il progetto pensato da Silvia Cini è ora in corso, fino all’8 settembre, in una mostra al Museo Orto Botanico, Polo Museale Sapienza, Sapienza Università di Roma in partenariato con ELTE University Botanical Garden Budapest. Avant que nature meure segue una strada diversa rispetto a molta arte impegnata su tematiche ecologiste, tipicamente giocata su una ricerca di visibilità per il danno antropogenico sul pianeta, per il fatto di mettere del tutto o quasi da parte l’immagine e persino il manufatto artistico e articolarsi in una pluralità di tattiche operative che spaziano dalla creazione di una deep mapping online della presenza di orchidee spontanee nella città di Roma, all’organizzazione di derive neo-situazioniste, workshop, incontri pubblici e momenti espositivi.
Abbiamo intervistato l’artista.

Il punto di partenza per comprendere questo lavoro credo dunque non possa che essere il tuo rapporto con l’oggetto artistico.
Ho impiegato quasi quindici anni per trovare gli strumenti adatti a questo progetto. Quello che cercavo era un codice linguistico aperto a molteplici sviluppi, un codice on life, termine del filosofo Luciano Floridi che descrive l’ibridazione contemporanea tra le sfere idealmente separate dell’online e dell’offline, del “digitale” e del “reale”. Personalmente ho sempre sentito una profonda distanza dalla produzione di oggetti; quello che mi interessa è costruire un processo e che questo abbia una ricaduta nel quotidiano attraverso gli strumenti di volta in volta più adatti. È esemplare il caso dei segnasfalcio che ho realizzato per il progetto, ovvero delle piccole sculture che sembrano rappresentare le orchidee, ma sono a uno sguardo più attento galvanoplastiche la cui anima interna è effettivamente costituita da orchidee reali, alle quali si è sovrapposto, per elettrolisi, del rame. Da parte mia non c’era alcuna volontà di produrre in prima persona degli oggetti scultorei, né tantomeno l’arroganza di voler “imitare” la natura. Sono semmai oggetti realizzati attraverso di me e finalizzati al raggiungimento di un obiettivo concreto: modificare le tempistiche di sfalcio del verde urbano, segnalando a partire dai luoghi di fioritura delle orchidee dei punti in cui sovvertire le normali modalità di addomesticamento della vita naturale in città e, così facendo, creare spazio per la normale crescita del verde, il lavoro degli impollinatori, la salvaguardia della biodiversità.

Silvia Cini Avant que nature meure _ exhibition view_ph credit Cristina Crippa

Oggi un numero crescente di artiste e artisti si concentra su un’arte di azione diretta tesa a sviluppare nuove sfere pubbliche di solidarietà e convivenza umana e più-che-umana, spesso calate in territori convenzionalmente considerati periferici. Nel tuo caso, però, sembri prendere di petto le contraddizioni ecologiche del nostro tempo insistendo sulla dimensione non solo della città, ma della metropoli italiana per eccellenza, ovvero Roma. Quanta importanza riveste per te lo spazio pubblico urbano in generale, e quello romano in particolare?
Ha un’importanza assoluta. Non ho mai lavorato nella direzione di un display legato a uno spazio galleristico o museale nel senso classico. Ho sempre ricercato un display pubblico, non tanto nella sua dimensione fisica condivisa quanto per la sperimentazione di un rapporto non mediato con la cittadinanza, con le altre persone, al tempo stesso sviluppando una relazione uno-a-uno, e non posta nei termini (verticali e gerarchici) del dialogo tra una mia individualità come autrice e al contrario un pubblico descritto come generico, indifferenziato e indistinto. Quando poi il contenitore espositivo entra in gioco, lo fa ancora una volta come presupposto per un dialogo reale, come occasione strumentale a moltiplicare le connessioni che è possibile instaurare con le persone. Perché questo dialogo esista – in maniera autentica, non come semplice allusione simbolica – servono degli attori, altrimenti sarebbe un monologo. Più sono gli attori, più sono le istanze, più si arricchisce la carica trasformativa di ciò che potrebbe emergere da questa conversazione. Ed è qua che la città dimostra il proprio valore insostituibile: la città è un superorganismo che riunisce una pluralità incalcolabile di attori non solo umani, di tempi più che umani, di cicli di vita e di morte che non sono quelli della nostra intenzionalità o conoscenza. Roma, da questa prospettiva, non poteva che costituire il punto di partenza di un progetto così complesso, per l’immensità della sua scala spaziale e per le stratificazioni quasi geologiche che soggiacciono alla sua storia millenaria. Come ricordavi, ci sono molteplici realtà vicine a questo sentire contemporaneo; la città, tuttavia, è un tale catalizzatore di connessioni e al contempo un territorio di crisi così radicali – penso all’impatto distruttivo dell’urbanizzazione sregolata, all’addomesticamento dell’ambiente, alle sempre maggiori esclusioni sociali – che può costituire un territorio decisivo per sperimentare una ricalibratura del nostro vivere nella direzione di relazioni più giuste tra comunità umane, viventi non-umani e il pianeta. Roma è un luogo anche notoriamente problematico, ma è sorprendentemente pure lo spazio in cui le orchidee spontanee, con una prova coraggiosa di resilienza e adattamento, possono spuntare agli angoli delle strade, fuori dalle fermate della metropolitana, persino tra le rovine del mondo antico: possiamo allora vedere nel loro poetico esempio una metafora per una vita alternativa tra le rovine del capitalismo e del progetto moderno che, con le loro promesse di crescita illimitata, non ci hanno infine consegnato altro che una Terra al collasso, vessata da ingiustizie sempre più profonde.

 

In questo senso, una centralità insostituibile è assunta da un concetto a te molto caro, che erediti direttamente dallo spirito con cui, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, il pittore paesaggista Enrico Coleman realizzò tramite una serie di acquerelli una mappatura ante litteram delle orchidee spontanee a Roma: la nozione di tutela. Questa non si esprime, però,

Silvia Cini Avant que nature meure _ exhibition view_ph credit Cristina Crippa

come una sorta di eco-estetica riparativa nella quale “noi” siamo incaricate e incaricati di prenderci cura di un pianeta vagamente oggettificato rispetto all’intenzionalità umana, ma diventa lo spunto per una riconsiderazione del nostro stesso ruolo in un mondo più-che-umano.
Proprio per questo ho scelto di concentrarmi sulle orchidee, che a livello botanico si definiscono come “piante carismatiche”, ossia piante che compiono il proprio ciclo vitale soltanto nella possibilità di stabilire un rapporto di simbiosi con altri viventi. Quello che mi interessa è il processo di micorizzazione che esse sviluppano con le ife dei funghi nel sottosuolo, nei climi temperati, o la simbiosi che stabiliscono con le cortecce degli alberi nel caso delle orchidee epifite tropicali: non un rapporto di parassitismo, ma un mutuo appoggio, per citare Kropotkin, un “abbraccio” in cui non può esserci vita senza convivenza, né convivenza senza cooperazione. Rispetto alla classificazione linneana – che raggruppava gli organismi per similitudine –, l’ingresso della genetica ha portato a una rivalutazione completa della percezione delle piante e non solo, in cui viventi che si somigliano ma non condividono una famiglia comune sono geneticamente distinti, mentre esseri del tutto diversi tra loro potrebbero essere geneticamente legati. Quando trasportiamo questa concezione nell’ambito delle polarizzazioni urbane, o addirittura a una scala internazionale a livello degli orribili conflitti in questo momento in atto attraverso il globo, ci rendiamo conto che tanto la genetica quanto la violenza umana sono conseguenze catastrofiche di una visione del mondo incentrata sui confini e non sugli equilibri di convivenza, sull’accentuazione delle differenze anziché sulla ricerca delle connessioni ancestrali, sul tracciamento artificioso di linee di demarcazione che separano culturalmente popoli osmotici. Da una visione come questa non possono che sorgere massacri sanguinosissimi come sta accadendo nell’invasione russa dell’Ucraina o nell’immane tragedia dell’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza. Allora sì, io parlo di fiori perché sto parlando di politica, per fare politica: studio la botanica per esporre il carattere violento, colonialista e in ultima istanza distruttivo dell’eccezionalismo umano e, al contempo, ricordare che le possibilità per un vivere alternativo esistono già, e ci possono essere insegnate da viventi apparentemente marginali e poco visibili come le orchidee.

Silvia Cini Avant que nature meure _ exhibition view_ph credit Sofia Basso

Silvia Cini. Avant que nature meure

6 giugno – 8 settembre 2024

Finissage della mostra 8 settembre dalle 17.00 alle 20.00 

Museo Orto Botanico – Sapienza Università di Roma – In collaborazione con l’Accademia di Ungheria in Roma
Largo Cristina di Svezia 23A – 24, Roma

Orari: dal lunedì alla domenica 9.00 – 18.30 (ultimo ingresso 17.30) – non è necessaria la prenotazione

Info: www.avantquenaturemeure-cini.it

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