TORINO | Gagliardi e Domke | fino al 29 giugno 2018
Intervista ad AURORE VALADE di Michele Bramante
Aurore Valade torna a Torino con la mostra personale Mexican interiors che le dedica la Galleria Gagliardi e Domke, studiata come una breve antologica dove le serie meno recenti sono affiancate all’ultima ricerca svolta in Messico. Il ritratto le unisce – anche quando il soggetto è surrogato dalle firme incise su una pianta grassa – come espediente per condensare introspezione psicologica e indagine sociale, perché nessuna descrizione può trascurare le condizioni empiriche di esistenza e le frizioni tra il desiderio e i codici della vita associata, più o meno impositivi. Le fotografie di Valade sono continuamente trapassate da questa osmosi tra coscienza individuale e peso del conformismo collettivo, nella quale anche lei si inserisce per negoziare con i soggetti fotografati i modi di apparizione, e parlare, attraverso essi, di politica e stato sociale. Ogni immagine si compone di questi fattori, a volte rovesciando le affezioni private sul piano pubblico, altre ricalcando l’interesse dei suoi modelli verso gli aspetti comunitari e le modalità più autentiche di socializzazione, ormai quasi eclissate nella storia passata. Le scene sono baroccheggianti per la sovrabbondanza di elementi, raggruppati in contesti dal tono surreale, a volte grottesco e apparentemente convulso, sebbene siano invece sottoposte a un lucido controllo che gestisce e ordina i particolari come un mosaico di indici a diversi percorsi narrativi.
L’America Latina sopporta una moltitudine di contraddizioni politiche, sociali e antropologiche dovute a una promessa di modernizzazione mai risolta, perché sabotata dai poteri internazionali e da un’economia illegale spinta ai margini dalla globalizzazione, che se la assoggetta, allo stesso tempo, per lo smaltimento commerciale dei prodotti occidentali. Sono questi i motivi che ti hanno spinto a scegliere il Messico per ambientare una delle tue serie?
Non solo. Mi sono interessata per un lungo periodo alla mescolanza di culture e temporalità. Ho ritenuto che la fotografia fosse lo strumento adeguato per mettere in pratica un’antropologia visiva, svincolata dall’esaustività scientifica e dotata di uno spazio per l’immaginazione.
Il Messico è fortemente caratterizzato da un sincretismo culturale e religioso. Più dell’80% della popolazione è meticcia, mentre le culture autoctone sono state a lungo minacciate di estinzione. La t-shirt ha sostituito l’abito tradizionale, la Coca-Cola ha soppiantato le bevande rituali e, in alcuni casi, perfino l’acqua potabile. Tuttavia, questi fenomeni non hanno ancora fatto estinguere del tutto le culture ancestrali. Il loro spirito originario sopravvive nei difetti, pullula nei dettagli, negli oggetti della cultura popolare, negli atteggiamenti, nei rituali. Si insinua nella Vergine di Guadalupe, appare nelle raffigurazioni della Morte, si trova negli ingredienti tradizionali dei cibi, punteggia ogni aspetto della realtà. La varietà culturale è estremamente ricca. Ecco perché sono stata attratta dal Messico, crocevia di civiltà e area di ibridazione di diverse e integrate soggettività.Esiste certamente il Messico della globalizzazione, omologato al gusto occidentale. La cultura tradizionale viene spesso abbandonata perché tacciata di folclorismo. Ho voluto incontrare e conoscere le persone grazie alle quali, al contrario, si mantiene vivo lo spirito tradizionale e antico: sono collezionisti, artisti, artigiani messicani, indiani, libanesi o giapponesi che lavorano con questo materiale miscellaneo compenetrato nella propria quotidianità, dove si trasforma giorno per giorno. Sono i custodi della memoria degli antenati in un mondo globalizzato. La necessità di rappresentarne l’identità ibrida, sovraccarica e stratificata mi ha suggerito l’uso dell’accumulazione. Le immagini sono congegnate come spazi saturi di oggetti, colori e simboli che dialogano, si confrontano, si contaminano per contatto. Cerco quindi di trasmettere allo spettatore la stessa impressione che questo Paese ha generato in me: una sorta di enigma intrecciato di storie complesse.
Nei tuoi ritratti, le vite dei personaggi si estrinsecano attraverso gli oggetti privati e le chincaglierie collezionate, in un campionario di gusto e desideri dove si materializzano i sentimenti che raccordano soggetto e realtà. Ognuno di quegli articoli disseminati nella stanza funziona come un segno che annoda i tratti particolari dell’individuo ai diversi contesti vissuti, domestici, relazionali e sociali. Quali sono le storie che ritieni di essere riuscita a visualizzare meglio?
Ho volutamente omesso le biografie dei soggetti con l’intento di non bloccare la loro identità in una rappresentazione rigida. Due immagini parlano di omosessualità, sebbene sia difficile intuirlo, perché il tema viene elaborato su un piano subliminale attraverso gli oggetti d’elezione dei protagonisti. Solo chi ne conosce intimamente le esperienze possiede anche i codici per leggere livelli ulteriori del messaggio. L’interpretazione che posso offrirne, grazie al dialogo confidenziale con ognuno di loro, si affianca alle altre che trovano luogo nelle invenzioni narrative riscrivibili a partire dai segni ammassati nelle immagini. L’occhio estraneo probabilmente non si accorge del fallo scolpito appoggiato sul letto dello sciamano, perché distratto dall’insieme. Ci sono, però, degli indizi più leggibili, come il titolo del libro in primo piano, “L’uomo multiorgasmico”. Attraverso questo sommesso palpitare di rivelazioni si comincia a capire come l’intera immagine sia costruita attorno a un’idea di virilità e mascolinità, a partire dalla quale si rischiara la traducibilità dei simboli: l’acqua, il fuoco, l’animalità, i capelli, la conchiglia, il revolver, il pugno chiuso e il falco che, provando a spiccare il volo, allude a un’erezione abortita.
Aggrovigliata a questa matrice simbolica più soggettiva, prendono corpo delle problematiche pubbliche e politiche che espandono la pluralità dei significati di cui si caricano gli oggetti personali. In qualche caso, si può ad esempio desumere una critica dei ruoli sessuali, come nella fotografia “Como agua para chocolate”, dove la donna viene sovraesposta alle valenze inflitte dall’immaginario collettivo, dalla peccatrice che brucia all’inferno, stampata sul grembiule da cucina, alla femmina provocante e un po’ aggressiva rappresentata dalla scarpa con tacco a spillo e sperone da cowboy sul tavolo in primo piano. Tutte queste immagini si possono quindi leggere come storie di impegni intimi e politici.
Il calzolaio che vive a Tepito, in uno dei quartieri più violenti di Città del Messico, indossa con orgoglio una maglietta con il marchio del suo quartiere all’interno del quale riveste anche un ruolo di promotore culturale. Nello studio insegna ai giovani il suo mestiere, ma dà anche lezioni di pittura e scultura. Sono infatti visibili le opere degli studenti, alcune delle quali parlano di droga e di disagio, accanto a varie rappresentazioni della Morte che ride. Si entra quindi, come annuncia un cartiglio, dentro un “laboratorio di resistenza per creare il nuovo cittadino”. Possiamo seguire il calzolaio nelle sue passioni politiche con gli zapatisti, curiosando tra la foto del Che e un libro di Karl Marx. La prima pagina di un giornale riporta la notizia di una delle solite morti di quartiere affiancandola a una donna prosperosa: Eros e Thanatos che si stuzzicano a vicenda.
Se gli oggetti affollano lo spazio, i primi che l’osservatore riesce a decifrare consentono di entrare in conversazione. Le mie fotografie sono un riflesso del mondo saturo di segni in cui viviamo. C’è bisogno di circoscrivere delle scelte, di soffermare l’attenzione su qualche particolare per essere in grado di decifrarlo. Chiunque può distinguere l’intimità, la politica, l’aspetto antropologico o vedere tutto insieme, o anche rigettare qualche significato perché ritenuto poco convincente. In ogni caso, è necessario attivare una storia.
Si nota, in ogni immagine, una cura meticolosa nella regia degli spazi e nella disposizione degli oggetti che mette in evidenza l’artificiosità dell’allestimento preparato per la ripresa. E’ evidente lo scarto tra la postura naturale e la posa dei soggetti, che sembrano quasi recitare se stessi, perfino nella serie dove ti proietti nell’età della vecchiaia, inscenata con studiata teatralità. Prima hai detto che la fotografia ti ha permesso un’analisi del reale conservando libertà all’immaginazione. È in questo scarto tra il realismo antropologico e la sua commedia che trova sede quel margine fantastico in cui prosperano le interpretazioni e i racconti soggettivi? Oppure, che altro ruolo ha la finzione nelle tue immagini?
La teatralità delle mie immagini segna una presa di distanza di fronte alla realtà, e ci interroga sull’artificio che regna nel cuore stesso della nostra vita. Ma né l’artificio né la teatralità avversano il reale. Sono invece forme di esperienza che variano in rapporto alla nostra percezione del mondo. Per questo nelle mie immagini faccio in modo che diventi impossibile distinguere il vero e il falso. A volte uso il fotomontaggio e il ritocco digitale, ma questi interventi non sono mai dove crediamo di vederli. In alcuni casi li scorgiamo in un’immagine che, al contrario, coincide perfettamente con la scena reale davanti ai miei occhi. Altrove, tutto sembra naturale, mentre invece ci troviamo di fronte a un’illusione meticolosamente orchestrata. Si tratta di andare oltre la dicotomia tra realtà e falsificazione, di disturbare queste categorie per superarle nella coscienza. L’aspetto di finzione che presento non si oppone quindi al reale, ma è un modo di conoscenza. Vorrei aggiungere che tutte le immagini di questa serie sono costruite in modo partecipativo, condividendo le scelte di oggetti, vestiti e pose con le persone attivamente coinvolte nella costruzione della fotografia e nella sua messa in scena. Ogni immagine è il risultato di un dialogo con la persona fotografata. La finzione si situa, quindi, all’incrocio dei desideri: il mio come fotografa e quello del mio soggetto, che si fondono nella sua rappresentazione. La finzione non sostituisce la realtà, perché la realtà è questa formazione di desideri interconnessi. Essa ci porta nei territori delle possibilità e delle fantasie, generando ovviamente molteplici interpretazioni, ma permettendoci anche di proiettarci nel tempo, perché racconta delle speranze per il futuro e delle esperienze in movimento, il desiderabile o l’indesiderabile che agitano le visioni del mondo.
Aurore Valade. Mexican interiors
nell’ambito di Fo.To Fotografi a Torino
3 maggio – 29 giugno 2018
GAGLIARDI E DOMKE
Via Cervino 16, Torino
Info: +39 340 1162988
info@gagliardiedomke.com
www.gagliardiedomke.com