MILANO | Prometeo Gallery – Ida Pisani | 10 febbraio – 19 marzo 2021
di ALICE VANGELISTI
Le migrazioni umane sono un fenomeno attestato fin dalle epoche più antiche – ma oggi più che mai sono entrate sotto la luce mediatica soprattutto per il risalto dato al loro epilogo spesso tragico dai moderni mezzi di comunicazione – anche se recentemente oscurato dall’attenzione ormai consacrata quasi esclusivamente alla pandemia dilagante.
Prometeo Gallery espone così nella sua sede milanese una mostra dal grande impatto visivo e di significato che riporta l’attenzione su questa tematica, concentrandosi su un aspetto fondamentale nella storia dell’uomo e indagandolo attraverso l’interpretazione degli artisti contemporanei riuniti nella collettiva IN-ATTESA. Nove voci sul tempo delle migrazioni. Si tratta, infatti, di una mirata selezione di video, disegni, fotografie e installazioni che rilegge la complessa e spesso delicata tematica delle migrazioni dei popoli, offrendo così uno spaccato contemporaneo e sottile di un fenomeno che ha acquisito negli anni un peso sempre maggiore nell’opinione pubblica.
Non è sicuramente un tema facile da affrontare, ma la qualità delle opere esposte e la loro potenza visiva e di significato riescono a donare alla collettiva un’aura perfetta di indagine esplorativa condotta da nove voci individuali unite però dal filo rosso di una narrazione di fondo che attiva l’attenzione su un fenomeno storico e attuale al tempo stesso. È una conversazione corale, che va oltre il tempo e lo spazio anche grazie all’arte: è proprio il suo farsi immagine che la rende ancora più concreta e reale, attraverso frammenti emblematici e significativi in grado di accorpare in sé una tematica profonda e complessa come quella della migrazione. Alla fine quello che si delinea però è un’esposizione dal sapore “amaro”: la tragicità che il più delle volte accompagna questi avvenimenti non può essere ignorata, anche se spesso è velatamente celata e resta sottintesa. L’attenzione si concentra così su una stratificazione di interpretazioni e significati, in grado di sondare su più livelli di lettura le diverse declinazioni che questo fenomeno può assumere. Sono raccontate in questo modo dagli artisti delle storie singole, intime e personali, unite però da un filo comune che rende palese di come si tratti in realtà di una storia universale che accomuna tutti i popoli, indipendentemente dalle differenti culture e geografie e dai diversi finali che ognuna di esse possa assumere.
Si stratificano così in mostra una serie di visioni che incarnano profondamente e intimamente la tematica affrontata. Così in Flag (2016) di Maria José Arjona (Bogotà, 1973), la coperta termica dorata che oggi più che mai è entrata nell’immaginario collettivo come emblema delle migrazioni è sventolata dall’artista diventando un nuovo vessillo fortemente identitario e carico di significato.
Sempre sul tema della bandiera come identità si concentrano anche Filippo Berta (Treviglio, 1977) in Homo Homini Lupus (2011), in cui il tricolore è conteso e sbranato da un branco di lupi, e Giuseppe Stampone (Cluses, 1974) in Mimesis (2018), il quale rielabora in ottica contemporanea l’immagine della Madonna del Belvedere di Raffaello, la quale diventa simbolo della globalizzazione odierna, in cui una nuova bandiera è ancora tutta da disegnare.
Restando nel solco della “citazione”, Mary Zygouri (Atene, 1973) in Venus of the rags/In transit/Eleusis (2014), riprende invece l’emblematica Venere degli stracci di Pistoletto e la ricolloca in una Elefsina contemporanea, luogo in cui storicamente ha avuto origine il culto di Demetra, dea dei raccolti, che implicitamente richiama a un senso di comunità e partecipazione attiva per il raggiungimento di obiettivi comuni.
Una coralità personale e intima è invece quella trasmessa dall’intenso video in bianco e nero What is man? (2014) di Edson Luli (Shkoder, 1989), in cui l’artista scava a fondo nelle radici dell’esistenza umana e dell’innegabile bisogno di spostarsi, interrogando persone appartenenti a differenti etnie e ceppi linguistici per dare vita a una serie di intime “interviste-ritratto”, significative per inquadrare appieno l’odierno melting-pot dettato dalla crescente globalizzazione e influenzato anche e soprattutto dalle migrazioni.
Andando oltre questi aspetti più identitari legati alla migrazione e concentrandosi, invece, sui tratti più drammatici di questo fenomeno sono presenti in mostra una serie di opere che ne indagano i differenti gradi di tragicità. Le vittime di relazioni economiche che prevalgono su quelle personali sono ad esempio il soggetto della grande opera fotografica di Santiago Sierra (Madrid, 1966), intitolata 3000 huecos de 180 x 50 x 50 cm cada uno (2002). Questo scatto ritrae un’azione “collettiva” dal forte impatto non solo visivo ma anche di significato per via delle 3.000 buche, ciascuna a dimensione umana, scavate da un gruppo di immigrati di origine magrebina e sub-sahariana su una collina a Cadice, in Spagna, da dove si può intravedere in lontananza il continente africano.
Spostandosi invece oltreoceano, Regina José Galindo (Guatemala City, 1973) indaga le delicate relazioni di potere che, a vario titolo, definiscono il complesso panorama delle migrazioni contemporanee tra America Centrale e Stati Uniti. Così, nell’installazione America’s Family Prison, è testimoniata l’azione messa in scena nel 2008 che consisteva nel far sostare l’artista, il suo compagno e la figlia nella piccola cella prodotta per ospitare famiglie intere, trattenute dalle autorità in seguito al loro tentativo di attraversare il confine tra Messico e Stati Uniti.
Sempre ragionando sull’area americana ma in relazione ai rapporti con l’Europa, Maria Evelia Marmolejo (Pradera, 1958) nella serie fotografica America (1985) ricorda come la scoperta del Nuovo Continente coincise con l’inizio del colonialismo europeo: niente avrebbe dovuto legittimare gli orrori dei colonizzatori sui colonizzati e niente dovrebbe legittimare il perpetrarsi di certe atrocità.
Infine, nella struggente installazione Habibi (2019) di Ruben Montini (Oristano, 1986), il protagonista diventa il mare, drammatico emblema della migrazione e detentore di tutti i corpi e di tutte le storie di quelle persone che non sono riuscite a oltrepassarlo.
E il mare come linea di confine da superare è protagonista anche del video On the Straight and Narrow (2014) di Filippo Berta, in cui una fila di persone, riprese dall’alto, cammina cercando di seguire il margine che si disegna sul bagnasciuga, linea ideale di un confine evanescente ed emblema di una migrazione tanto invisibile quanto innegabilmente esistente.
IN-ATTESA. Nove voci sul tempo delle migrazioni
Artisti in mostra: Maria José Arjona, Filippo Berta, Regina José Galindo, Edson Luli, Maria Evelia Marmolejo, Ruben Montini, Santiago Sierra, Giuseppe Stampone, Mary Zygouri
10 febbraio – 19 marzo 2021
Prometeo Gallery Ida Pisani
via Ventura 6, Milano
Orari: da lunedì a venerdì 11.00-19.00; sabato 16.00-20.00 e su appuntamento
In concomitanza con l’opening in via Ventura, si apre anche una nuova collaborazione con VIAFARINI, nello spazio CONCORDIA 11 (in Corso Concordia 11 – Milano), che si concretizza nella costruzione di un dialogo espositivo tra due artisti, uno rappresentato dalla galleria e uno attualmente in residenza presso la storica organizzazione non profit: Regina José Galindo e Arjan Shehaj. Aperto solo su appuntamento
Info: info@prometeogallery.com
www.prometeogallery.com