MILANO | Nuova Galleria Morone | 5-30 dicembre 2020
Intervista a CRISTINA CASERO di Pietro Bazzoli
Ampie campiture monocrome sovrastano tele di grandi dimensioni e immagini in bianco e nero si alternano da un’opera all’altra, disseminando come tracce un percorso che lega insieme la ricca produzioni di un’artista eccezionale.
Nataly Maier è senza dubbio maestra nell’uso del colore: ne ricerca l’essenza attraverso lo sguardo, lo analizza e lo pone tecnicamente sulla tela. Ne estrapola una sua matrice più pura, accostandola a immagini che inseguono tonalità vibranti in opere che interrogano lo spettatore. La Nuova Galleria Morone di Milano propone un’ampia personale sul lavoro di Maier, sulla sua produzione passata e recente. Abbiamo incontrato la curatrice della mostra, Cristina Casero, per porle qualche domanda riguardo alla forma (e al senso) che l’artista attribuisce al colore:
Come è nato il progetto della mostra?
La mostra è nata dalla stima nutrita nei confronti di Nataly Maier e nei confronti di Diego Viapiana, che conosce l’artista, il suo lavoro ammirato e conosciuto in diverse occasioni. È stata anche una duplice occasione: da un lato la mostra è stata inserita nel palinsesto I talenti delle donne, dedicato dal Comune di Milano alle figure femminili in questo 2020; dall’altra è avvenuta in simultaneo alla pubblicazione della monografia sui suoi trent’anni di ricerca pittorica (Nataly Maier. Percorsi di pittura 1990-2020, n.d.r.), edita da Vanillaedizioni e curata da Matteo Galbiati, che è anche autore del saggio critico che l’introduce. Quest’insieme di circostanze ha aperto il dialogo. Quello che è stato intrapreso nella Nuova Galleria Morone è un percorso più antologico, nella lettura più approfondita delle prime opere, per giungere poi a quelle più recenti. Il tutto per restituire uno sguardo d’insieme. Credo fermamente nel lavoro e nella continuità del suo percorso, nonostante i naturali cambiamenti espressivi incorsi negli anni.
La forma del colore: quanto è importante il colore nella sua pittura? E che ruolo parallelo gioca la luce in tutto questo?
Nataly Mayer nasce come fotografa: negli anni Novanta è a Milano e riveste il ruolo di fotografa professionista, spesso per riviste di architettura. La fotografia nasce dalla luce, dallo scrivere con la luce, una componente che non può essere trascurata e che senza dubbio ha formato la sua capacità di osservazione. È molto interessante, perché la luce e il colore sono centrali in ogni suo lavoro, elemento fondante della sua ricerca. Mi ha sempre colpito che Nataly abbia lavorato con la fotografia cercando l’essenza della forma, che lei trova con le fotosculture, messa in relazione alla rappresentazione stessa. L’idea cardine del suo lavoro è che l’artista cerca di mettere in luce la forma sottostante alle composizioni cromatiche.
Partendo dalle origini: lei scrive che Maier “colloca l’oggetto effigiato nel suo spazio effettivo, conducendo così un affondo su un tema cardine della cultura visiva: il carattere rappresentativo della fotografia, il rapporto ambiguo che instaura con la realtà”…
La sua ricerca è incentrata sulla rappresentazione: per questo necessita di un fruitore e poggia sul rapporto tra realtà e rappresentazione. È una tipologia di ricerca che diventa interessante anche sul piano concettuale: la riflessione in ambito fotografico, separando l’immagine dal colore, mette in discussione la realtà e questo processo è evidente nella sua produzione.
Monocromo e figura, monocromo e parola, realtà e trascrizione. L’arte di Nataly Maier è fatta di opposti? E dove si colloca l’artista rispetto all’opera, quanto hanno giocato la sua formazione e le sue origini in tutto questo?
Il suo passato è altrettanto interessante: Nataly Maier si affaccia al mondo dell’arte in anni caratterizzati da una forte matrice pittorica. Lei aveva una formazione tecnica da fotografa (aveva frequentato la scuola di fotografia di Monaco, prima di giungere a Milano nel 1982), tale da essere “abituata a guardare”.
Una formazione che ha caratterizzato il suo percorso artistico…
Fare fotografia abitua a pensare, a ragionare come il mezzo utilizzato al massimo delle sue possibilità possa tradurre qualcosa. La fotografia necessita di una grande consapevolezza: diviene fondamentale comprendere come tradurre la realtà in una rappresentazione efficace, riflettendo sull’oggetto e sulla sua composizione. Lo stesso procedimento vale anche per altri strumenti, altre vie, come la pittura. Si può dire che l’approdo finale di Nataly Maier sia la pittura, intesa però come elemento puramente espressivo, nata da un’abitudine allo sguardo che segna in modo indelebile la sua cifra stilistica.
Nataly Maier giunge alla pittura dopo un grande studio del mondo che la circonda. Qual è stato il suo approccio?
Anche a livello tecnico, si assiste a questa capacità analitica. Così come Nataly Maier riesce a sfruttare le potenzialità della macchina, in pittura ricorre alle tecniche della tradizione. Non è un caso, quindi, che padroneggi tecniche quali l’encausto o utilizzi la tempera all’uovo nei suoi lavori. Questa metodologia fa comprendere quanto vi sia una grande importanza al fare, che è un aspetto che permea molto la matrice concettuale del suo lavoro. È, infatti, questa componente a rendere peculiare le sue opere, che non sono mai algide e puramente mentali. Il suo approccio al fare dimostra come la sapienza tecnica sia fondamentale per un artista: saper sfruttare appieno le potenzialità dello strumento è imprescindibile.
In mostra è presenta una fotoscultura del suolo lunare, datata 1989. Come si colloca con l’artista nei confronti della propria contemporaneità?
Nataly Maier è un’artista originale, soprattutto nelle fotosculture che vedono la luce proprio attraverso lei: quest’idea di approfondire il rapporto tra figura e forma, traducendo la figura nella forma, è un tema interessante a livello generale e soprattuto a livello di relazioni, perché torna sul discorso della rappresentazione tra realtà e immagine, in una cifra caratteristica del secolo scorso e inserendosi in riflessioni più ampie. Non per nulla quella che viviamo oggi è una società dell’immagine e, in termini attuali, l’idea di riflettere su questo rapporto pone i suoi lavori al centro della discussione. Non sono considerazioni chiuse nell’ambito artistico, ma vanno a influire sui fatti culturali molto più ampi e variegati.
Quelli a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, reale inizio di un proficuo percorso artistico, sono stati caratterizzati da grandi cambiamenti. L’artista ne ha in qualche modo risentito?
Il percorso di Nataly è molto personale, lo è sempre stato: siamo di fronte a un’artista completa, costantemente focalizzata sulla sua ricerca, mantenendola ogni volta attuale. Pur vivendo nel contesto milanese, Nataly Maier ha agito con una spiccata indipendenza, senza sentirsi legata o vincolata al contesto in cui si trovava ad operare. Forse per questo motivo non ha mai abbandonato una spiccata corrispondenza con il suo paese d’origine, la Germania, che ha ospitato moltissime sue mostre. Nataly Maier è senza dubbio una cittadina del mondo, molto connessa all’internazionalità.
Questo è stato un anno delicato per le gallerie italiane: qual è stata la sua impressione?
Penso che le gallerie abbiano fatto fatica, districandosi in un periodo molto complesso. Ora gli spazi hanno potuto aprire in quanto esercizi meramente commerciali, ma l’aspetto culturale non è stato assolutamente tenuto in considerazione: non se ne parla abbastanza. Le gallerie hanno subìto il lockdown e la crisi economica e la cultura avrebbe dovuto rappresentare una risorsa, un motore per la rinascita del Paese, ma non mi sembra che questo sia avvenuto. La cultura non è stata intesa come meritava e non è stata fatta alcuna riflessione sul suo ruolo in questa situazione drammatica.
Nataly Maier. La forma del colore
a cura di Cristina Casero
Nuova Galleria Morone
via Nerino 3, 20123 Milano
Orari: da martedì a sabato 11.00-19.00
Apertura in ottemperanza delle disposizioni in materia di contrasto al Covid-19
Info: +39 02 72001994
info@nuovagalleriamorone.com
www.nuovagalleriamorone.com