ROMA | Fondazione Giuliani |10 maggio – 20 luglio 2018
di JACOPO RICCIARDI
Alicja Kwade utilizza lo spazio della Fondazione Giuliani come un percorso che va da un inizio ad una fine. Si parte da un parallelepipedo di marmo (lo stesso delle statue dell’Antica Grecia) che ripetuto si frantuma fino a diventare polvere infinitesimale. Big Bang della fisicità? Il blocco di marmo ha l’altezza e la larghezza medie di un uomo. La colonna viene successivamente spaccata secondo le proporzioni del corpo umano di Vitruvio. Si passa tra i grandi blocchi, poi si cammina intorno all’opera quando lo spazio tra di essi diventa disagevole. In quest’opera si hanno i due orizzonti dell’oggetto, ossia lo stadio compiuto, e lo stadio infinitesimale. Questi due estremi dell’oggetto si guardano e procedono contemporaneamente o alternativamente l’uno verso l’altro. Il percorso finisce con un oggetto vero e proprio, uno sgabello di legno consunto, la cui immagine tridimensionale è un’illusione poiché un quarto di esso ricostruisce gli altri tre quarti grazie a due specchi messi ad angolo retto, adiacenti allo spicchio reale dello sgabello. Altri tre spicchi di sgabelli reali creano la stessa illusione mano a mano che si gira intorno.
Le quattro coppie di specchi ad angolo retto, specchianti anche sul retro, messe a qualche centimetro le une dalle altre, riflettono uno spazio che si perde all’infinito, fatto di specchi che specchiano specchi. Lo sgabello reale in effetti è presente interamente anche se scisso in quattro, e, dalla prospettiva di ognuno dei frammenti, si può cogliere soltanto l’insieme ibrido dell’oggetto e della sua proiezione, ripetuto quattro volte. Qui l’artista ci mostra come la realtà di un oggetto sia tutt’altro che univoca, ma sfuggente di altre dimensioni, interrogando così la natura del tempo e dell’esperienza. È questo un percorso iniziatico?
La seconda opera, scolpita nello stesso marmo della prima, riproduce a grandezza naturale il sostegno in forma di tronco che regge strutturalmente la figura che qui manca – originariamente esso conferiva alla statua maggiore resistenza e stabilità. Qui, sul tronco, si mostrano ben levigate l’assenza del polpaccio e di parte della coscia della statua dell’atleta che non c’è. Questo confine tra oggetto pratico e oggetto rappresentativo è il vero corpo reale che interessa all’artista. Un corpo fatto di connessione.
In tre teche lunghe e strette, dei barattoli raccolgono delle polveri di diversi colori e materiali: sono le polveri, nell’esatta quantità, dei vari materiali contenuti in una lampada, una radio, un orologio. Il pensiero dell’osservatore studia questa materia mutevole scomponendo, in una soggettiva materica, la percezione della luce elettrica, dell’onda sonora facsimile, e del tempo che sembra dissolversi proprio nella materialità sensibile di quelle polveri.
Nella stanza successiva altre teche contengono falsi vasi e false coppe che simulano le forme di quelle dell’Antica Grecia, di colore nerastro o grigiastro, formate da un agglomerato sintetico, prodotto dalla macinatura di un I-Phone, o di una lampada, o di un computer, o di una radio, o di un orologio, aggregati con una resina e realizzati da una stampante 3D. Qui la fisicità della dimensione dei manufatti richiama la dimensione di altri manufatti generando un gap che nasconde storia e tecnologia e che deve essere indagato come si scruta un baratro.
Il grande cono di minuscoli frammenti vetrosi azzurri si apre per terra per due metri circa e, alto poco più di un metro, punta in su. Opera enigmatica che ha a che fare con la gravità, con la determinazione di un piano che regge la vita (nella sua moltitudine) e di una elevazione elitaria verso l’ignoto non ancora realizzato.
La coppia di false candele di metallo, alte come l’artista e il suo compagno, ognuna accumulazione di diverse candele sovrapposte, in cima spente, anche se della finta cera è colata, ci mostrano lo strano ibrido tra idee e identità. Quanto di noi esse creano? Idee che magari apparse nella mente di uno sono state consumate nelle candele dell’altro.
Un riquadro di specchio, ripetuto diverse volte, riposa a terra e pian piano, in una scansione sia lenta che veloce, risale piegandosi sul muro e quasi lo conquista del tutto. Questo scivolare di una trasformazione del riflesso, che è fisica di un altrove, è in lotta con lo spazio della stanza, e forse lo vince sostituendosi ad esso. Gli specchi sono frammenti di orizzonti in contraddizione.
Vedo lo sgabello, non mi posso sedere, posso solo cercare di comprendere questo mio non potermi ancora sedere.
Alicja Kwade. MATERIA, PER ORA
10 maggio – 20 luglio 2018
Fondazione Giuliani
Via Gustavo Bianchi 1, Roma
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