MILANO | Lab 1930 Fotografia contemporanea | 8 novembre – 20 dicembre 202230
Intervista ad ALESSANDRA BALDONI di Matteo Galbiati
La mostra Pigre divinità e pigra sorte porta, nello spazio di Lab 1930 Fotografia contemporanea a Milano, una serie recente della poesia e della lirica narrativa fotografica di Alessandra Baldoni che, per l’occasione presenta un ciclo inedito di lavori. Una delle sue caratteristiche è quella di presentare immagini aperte al dialogo perché connesse nella forma di dittico – modalità che permette uno stringente dialogo tra storie differenti – e che qui avvicinano istanti, dettagli, particolari di un confronto che Baldoni ha avuto con i grandi capolavori della Galleria Nazionale dell’Umbria.
Scopriamo con lei l’eccezionalità di questa esperienza e del progetto che ne è conseguito:
Questo progetto so che ti è particolarmente caro. Ci racconti come è nato e come si è sviluppato? Quando e come hai potuto dialogare con le opere della Galleria Nazionale dell’Umbria?
Molto caro e molto vicino al cuore, perché ha a che fare con un luogo che mi appartiene profondamente e con il quale ho intrattenuto nel tempo rapporti simili a dei veri e propri appuntamenti amorosi in cerca di bellezza e respiro. La Galleria Nazionale dell’Umbria è da sempre stata un nido, un rifugio cui chiedere accoglienza per tornare ad attraversare lo splendore. Fuori può esserci tutto il rumore del mondo ma dentro quelle sale, tra quelle opere ho sempre trovato equilibrio, come un antidoto al veleno. Quindi, in un certo senso, il dialogo parte da molto lontano ma c’è stato un momento particolare – durante il suo complesso incredibile riallestimento – che ho potuto vedere, grazie alla disponibilità e lungimiranza del suo direttore Marco Pierini, la Galleria nel mezzo della sua delicata metamorfosi. Ho potuto guardare ciò che di solito resta celato allo spettatore, sono entrata mentre tutto doveva ancora compiersi, ho guardato “dietro il sipario”accadere prodigi, i miei occhi hanno forzato le serrature…
Quale cambiamento epocale sta vivendo questa istituzione che è in “una fase di passaggio”?
Un’evoluzione, secondo me, indispensabile per traghettare nel nostro tempo un luogo molto conosciuto e amato insieme a tutte le sue meraviglie. È difficile andare a toccare un’istituzione ferma nella sua grandiosità. È stata una sfida, molto audace. Occorreva ripensare l’esposizione per una lettura più contemporanea, far dialogare le opere con lo spazio che ho letteralmente “scoperto” con la riapertura, nel suo mutare dall’essere semplice contenitore di tesori a storia sorprendente esso stesso. C’era bisogno di luce, di chiarore, di “aria” per dare ancora più forza e centratura alle opere: il direttore Pierini ha realizzato un progetto magnifico e magnificente ed è molto interessante che abbia pensato ad interventi di artisti contemporanei all’interno dello spazio e che ci siano una costellazione di eventi di qualità – musica, performance, teatro ad esempio – che si innestano, germogliano, abbracciano le opere presenti mostrandoci aspetti inediti ed influenze.
Come ti sei posta nel raffronto specifico con questi capolavori? Che scelte e che orientamenti hai seguito, sempre restando fedele alla poesia della tua pratica fotografica? Quali capolavori hai voluto “trattare”?
Il privilegio di poter attraversare in solitudine le stanze della Galleria Nazionale dell’Umbria ed osservare i volti ed i gesti delle opere ancora appese accanto ai vuoti ed ai segni di ciò che era già stato tolto o spostato tagliando il silenzio con il rumore metallico del clic come fosse il ritmo del mio cuore/occhio è qualcosa che non dimenticherò mai. Ho seguito le opere che sentivo chiamare, i dettagli, gli affreschi rovinati, i segni quasi cancellati, le crepe, ho cercato i miei pezzi preferiti ma nei particolari … mani, piedi, corone, l’oro delle aureole, spine, carne trafitta e passata dalle frecce… Non volevo una riconoscibilità immediata dell’opera, ma il mio intento era creare indizi, piccoli rebus d’amore. Il mistero è un magnete, il canto delle sirene. Spinge a trattenersi ed avventurarsi nei significati, ad immaginare una mappa che riconduca la parte all’intero.
Dicevo che il dittico ti permette di attivare una narrazione esclusiva: cosa abbiamo nei due elementi che costituiscono ciascuno dei sei esposti? Come hai selezionato e avvicinato le diverse immagini?
Nei dittici le immagini accostate si incendiano. Parlano, si spostano e interferiscono l’una con l’altra, si completano e a volte si scontrano lasciando il sapore dell’attrito. Sono in tensione, una corda tirata tra due parti opposte. Alle immagini dei particolari delle opere ho accostato dettagli “del cantiere”, un cantiere bellezza. Fili elettrici che somigliano ad una corona, un groviglio di pluriball riprende la linea del panneggio che copre i fianchi di un San Sebastiano struggente nel martirio, un volto di un angelo per metà cancellato dal tempo ed accanto un pezzo di gommapiuma su un sostegno di ferro che riprende la forma della rovina, della sottrazione. La polvere dentro una teca vermiglia e il volto mangiato dal tempo di un San Giuseppe addormentato che ci ricordano la caducità e la fragilità dell’esistenza. Ho cercato la rima, la bellezza inedita che luccica nell’accostamento.
Hai fatto riferimento anche ad un “senso di smarrimento” rispetto a cosa lo si rileva? Perché poi è importante il senso di “trapasso” per queste opere?
La sensazione che ho avuto nel mio attraversare la Galleria nel momento delicato del disallestimento è di fragilità. Le opere non erano più nel loro posto consueto ma ancora non ne avevano preso un altro, non erano sistemate e pronte allo sguardo: esitanti, sembravano fissarmi con una domanda appesa. Opere che avevano attraversato i secoli, sopravvissute al bene e al male, ora incerte chiedevano una risposta riguardo il loro futuro prossimo. C’era un’atmosfera di smarrimento, la carte del destino sommerse e svanite…
Siamo abituati a vedere certi pezzi nella potenza e sicurezza della loro posizione museale e spesso dimentichiamo quanto siano in realtà affidate a noi, quanto la nostra cura sia essenziale. Poterle osservare nel momento della metamorfosi, nel dischiudersi di una nuova possibilità mi ha ricordato di quanto anche ciò che per me più si avvicina all’eternità faccia i conti con l’impermanenza. Questa scossa, questo tremore mi ha commosso ed attraversato aggiungendo una vibrazione allo sguardo.
Il progetto prevede anche la realizzazione di un photobook e un libro d’artista, quali contenuti hanno?
Pigre divinità e pigra sorte è un lavoro che affianca poesie alle immagini. I dittici sono accompagnati da parole, sia in mostra che nel photobook, un diario molto speciale, pensato con estrema cura, raffinatezza ed attenzione da Elena Carotti. Il colore che lo attraversa è il rosso, fino alla cucitura punto Singer, un colore di passione e devozione che si accosta all’austerità del progetto. Il libro d’artista ha un mio intervento in copertina e contiene un inedito fotografico e poetico, la stampa fine art di un dittico che non è in mostra né in catalogo, ma si trova solo nel libro. Sono trenta copie firmate con tre diversi inediti e poesie ognuno in edizione di dieci esemplari.
Nel complesso cosa ti ha dato questa esperienza (compresa la mostra milanese) e cosa rimane poi? Che eredità resta anche nel tuo lavoro futuro, quali riflessioni si sono aperte?
Certamente resterà in me la consapevolezza di aver potuto assistere a qualcosa di prezioso ed unico. Irripetibile. La mostra ha il patrocinio del comune di Perugia, della Galleria Nazionale dell’Umbria ed il testo di presentazione è di Marco Pierini. C’è inoltre uno scritto di Ilaria Batassa cui tengo moltissimo. Si sono create una serie di coincidenze ed incastri quasi magici. Questo progetto è stato scelto da Elena Carotti e portare la “mia” Galleria Nazionale a Milano è stato importante e motivo di orgoglio e devo dire che ha avuto una accoglienza molto calorosa. Ora sarebbe bello riportare la mostra a Perugia e stiamo lavorando per vedere se possa essere possibile. Nel frattempo uno dei dittici del lavoro finirà nella collezione della GNU.
Alessandra Baldoni. “Pigre divinità e pigra sorte”
a cura di Elena Carotti
con il patrocinio di Galleria Nazionale dell’Umbria
photobook edito da Lab 1930 a tiratura limitata e firmato dall’artista, libro d’artista in 30 esemplari firmati e numerati con cover personalizzata manualmente dell’artista e contenente la stampa Fine Art di un dittico non esposto, accompagnato da una suggestione poetica
8 novembre – 20 dicembre 2022
Lab 1930Fotografia contemporanea
Via Mantova 21, Milano
Orari: martedì e giovedì 16.00-19.00 su appuntamento; open day dalle 15 alle 18 nei seguenti fine settimana: sabato 3 e domenica 4 dicembre; sabato 17 e domenica 18 dicembre
Ingresso libero
Info: +39 347 8001904
elena@lab1930.com
www.lab1930.com
Alessandra Baldoni
Nasce a Perugia nel 1976, vive e lavora a Magione, un paese vicino al Lago Trasimeno. Ha esposto in Italia e all’estero e le sue opere fanno parte di importanti collezioni pubbliche e private. È finalista e vincitrice di diversi premi internazionali. Nel 2020 ha vinto il Premio Tiziano Campolmi a Booming Contemporary Art Show di Bologna, l’open call di Fotografia Europea di Reggio Emilia, ed è stata finalista al Premio BNL del Mia Photo Fair di Milano. Nel 2021 è tra le vincitrici della call di Fotonoviembre a Tenerife e finalista al Premio New Post Photography al Mia Photo Fair di Milano. Ha preso parte alla residenza Return2Ithaca a Itaca, curata da Nina Kassianou, Martin Breindl e Krzysztof Candrowicz, i cui esiti sono diventati una mostra itinerante, già esposta a Itaca e Vienna e che nei prossimi mesi toccherà altre città d’Europa.
Lab 1930. Fotografia contemporanea
La ricerca di Lab 1930 – nata da un’idea di Elena Carotti – si incentra principalmente sulla “post photography”, recente tendenza della fotografia contemporanea in cui lavori fotografici, spesso a tiratura unica e dalla forte narratività, dilatano i confini classici della fotografia. Le mostre sono accompagnate da piccoli photobook o “quaderni” d’artista in edizione limitata come parte della stessa proposta espositiva. Lo spazio espositivo, ripensato dall’architetto Emanuela Terrile, è caratterizzato dall’originale pavimento in cementine degli anni Trenta, mentre il progetto di illuminotecnica, studiato insieme a Biffi Luce, prevede faretti a led ad alta efficienza con un indice di resa cromatica molto alto per evitare le alterazioni di colore. Montati su binari elettrificati sono orientabili e si adattano al variare dei formati delle opere.