Tra i protagonisti di un numero “vintage” di Espoarte, il #54 dell’estate 2008, c’è anche Lawrence Carroll (nato a Melbourne nel 1954) di cui abbiamo appreso ieri sera la notizia della scomparsa a 65 anni. Riproponiamo qui l’intervista monografica, realizzata da Elena Forin all’artista. Australiano di nascita, americano di formazione, ma italiano d’adozione (dopo Venezia ha scelto di stabilire il suo studio in un borgo sulle sponde del lago di Bolsena) tra gli importanti progetti realizzati da Carroll in Italia ricordiamo la partecipazione al Primo Padiglione della Santa Sede alla Biennale d’arte di Venezia nel 2013 e successivamente la grande retrospettiva su trent’anni di lavoro al MAMbo nel 2015… L’intervista che ripubblichiamo nasce in seguito ad un precedente progetto veneziano, la personale che il Museo Correr ha dedicato a Lawrence Carroll nel 2008. La mostra, che si apriva con un’opera di Morandi, celebrava l’artista proprio a partire da uno dei suoi più intimi riferimenti, per poi raccontare, attraverso opere di grandi dimensioni e dalla notevole forza estetica, le fasi più importanti e necessarie di una ricerca in cui stratificazione, emotività, conoscenza, natura e memoria, si costituiscono come gli assoluti di una poesia personale e collettiva.
di ELENA FORIN
Come sei arrivato a trovare il tuo linguaggio?
Da bambino ero attratto dal disegno e mio padre portava a casa dal lavoro dei fogli su cui continuavo a disegnare; a quel tempo, tuttavia, non potevo immaginare che tutto ciò mi avrebbe portato a fare l’artista. Ripensandoci, credo che quello fosse uno dei modi che avevo per comunicare, per raccontare storie e immaginare mondi fantastici lontani dalla realtà. Oltre a ciò era anche un’importante via di fuga, perché mi stimolava a girovagare ed esplorare… E poi era una fondamentale alternativa alla vita in un piccolo paese ad un’ora da Los Angeles.
Nel 1984, finita la scuola d’arte, mi trasferii a New York, e questo mi aiutò moltissimo a capire in quale direzione andare in campo artistico, visto che fino a quel momento non avevo un’idea precisa. Alcuni incontri ed esperimenti in studio furono fondamentali: la scena newyorkese era dominata dai dipinti eroici, gestuali e di grandi dimensioni di Polke, Richter, Kiefer, Salle, Schnabel, ecc… Ma c’erano anche degli artisti che ancora non conoscevo e che stavano cercando la loro strada esattamente come me. Ero affascinato da tante cose, e ad un certo punto capii che dovevo muovermi in un’altra direzione, così passai la maggior parte delle mie serate chiuso nel mio studio a 6 miglia dal centro di Manhattan, senza mai conoscere nessuno e cercando di trovare nella pittura qualcosa che fosse veramente mio. Molte di quelle prove non raggiungevano risultati soddisfacenti, e sapevo anche che molti dei miei quadri non erano buoni, ma proseguivo pensando che non potevo far altro che migliorare, e che questo continuo sforzo mi avrebbe accompagnato là dove volevo.
Allo stesso tempo decisi anche di dedicare quanto più tempo possibile a New York, per vedere musei, mostre e gallerie; non solo per conoscere la storia dell’arte, ma anche per capire cosa stava succedendo e avere strumenti in più per comprendere le mie necessità e arrivare a trovare qualche cosa di familiare e veramente intimo. Le idee arrivarono lentamente e dopo molto lavoro, ma vennero anche da una meditazione sul mio passato: all’inizio non mi fidavo molto di queste sensazioni, ma poi negli anni ho imparato a riconoscere e apprezzare certe influenze che avevo assorbito.
L’attenzione per l’oggetto arrivò attraverso una riflessione su certa pittura e scultura (Sean Scully, ad esempio) ma nella maggior parte dei casi cercavo elementi al di fuori dell’ambiente artistico. Nel 1985 cominciai a realizzare delle piccole scatole pittoriche: mi piaceva l’idea di non poterle percepire nella loro totalità se non girandoci attorno, e oggi penso di poter dire che, considerare la pittura come corpo e non come facciata, è stato ciò che mi ha fatto cominciare il mio percorso di artista.
Mani e scarpe come emblemi di una manualità da artista faber e dell’idea del viaggio della conoscenza. Come emerge la figura dell’artista nel tuo lavoro?
A guidare lo sviluppo di un’idea è sempre una certa processualità, anche se naturalmente, alle volte, alcune di queste idee hanno bisogno di anni prima di emergere nel lavoro. Nella maggior parte dei casi tutto ciò avviene in studio, dove materiali e cose diventano familiari per poi tramutarsi, solitamente a casa, in ciò che poi entra nei miei quadri.
Stratificazione di colore e materiali, collage e mondo oggettuale: la tua ricerca sembra una metafora della vita e una riflessione sulla nostra era…
Penso che spesso sia facile fraintendere o sovraccaricare i contenuti di un quadro. Il fruitore ha bisogno di conferme e cerca di ricevere da un quadro ciò che sta cercando, ma l’arte non funziona in questo modo ed è molto più profonda di così. Non voglio che i miei lavori siano visti in senso letterale, quanto piuttosto che la gente ne faccia in qualche modo esperienza: è così difficile capire la vita che provo a dipingere proprio pensando a questo. Cerco di avvicinarmi e di afferrare dei contenuti, e poi quando mi rendo conto di averlo fatto e che ciò che sento sta diventando semplicemente lavoro, comprendo che è arrivato il momento di dedicarmi a qualcos’altro.
La conservazione è un fatto di memoria privata e collettiva. In questo senso, i lavori che accolgono al loro interno la tela pittorica piegata hanno una particolare relazione con la storia. Cosa rivelerebbero quelle tele se venissero aperte?
La tua visione è corretta: le tele piegate all’interno di quei dipinti “dormienti” possono potenzialmente essere aperte e viste nuovamente. Questo fatto dà loro la possibilità di diventare qualcosa di diverso da ciò che erano inizialmente e di acquisire, quindi, una nuova vita. L’idea che qualcosa possa giacere addormentata, per poi svegliarsi in un altro luogo e in un altro tempo, con altri contenuti e significati, mi permette di continuare il mio discorso sull’impossibilità di una verità assoluta e immutata nel tempo.
La tua poetica è fatta anche di una ruvida delicatezza. Cos’è per te la poesia?
Semplicemente la vita.
Anche gli oggetti hanno un’intensa carica lirica: vuoi parlarci dei tuoi cesti e delle “palle di neve”?
In questo momento sono molto vicino a questi oggetti, quindi non so spiegare chiaramente cosa significhino. Spesso mi fido di un’idea, ma la comprendo davvero solo più avanti. Di sicuro so che questi elementi hanno qualcosa di veramente vitale, e dal momento che avverto tale sensazione in maniera molto forte non posso far altro che andare avanti.
Cos’è per te la natura?
È contraddizione, e quindi imperfezione e incertezza, e questo insieme di aspetti ne fa un incredibile luogo di creazione.