BAGNACAVALLO | Museo Civico delle Cappuccine | 14 aprile – 1 luglio 2018
Intervista ad ENRICO LOMBARDI di Tommaso Evangelista
La mostra Acheropita, che sta giungendo alla conclusione, raccoglie i nuclei essenziali della produzione più recente di Enrico Lombardi, con circa settanta opere esposte. Queste sono state divise in due serie: “Jazz”, con dieci grandi tele in omaggio a musicisti internazionali che hanno accompagnato la vita del pittore con le loro influenze sonore, e tutto il corpus principale degli “Esercizi Spirituali”, un vasto ciclo pittorico di ricerca di ascetismo minimalista, in cui il pittore cerca come in una forma di meditazione artistica il nucleo centrale del suo mondo poetico. In tali opere, per la prima volta presentate in una rassegna così articolata, il linguaggio di Lombardi tenta di trovare una suprema sintesi fra la pittura medievale e la pittura astratta moderna, nella quale intuisce un equivalente spirituale della pittura di icona, da cui il titolo della mostra. Riflettendo su tali tematiche è nata questa intervista.
Enrico, partiamo dal titolo della prossima personale, Acheropita, una delle più complete della tua carriera, capace di offrire un importante spaccato della tua intera produzione. L’idea dell’impermeabilità dell’immagine, della sua realizzazione invisibile e divina, si sposa con la tua ricerca minimalista, quasi asettica, sulle forme di un paesaggio interiore. Come entra tale concetto, legato soprattutto alla pittura di icone, in questa pittura?
Ho scelto di intitolare questa mostra Acheropita (non dipinto da mano umana) quasi per dire una parola definitiva su tutto il mio lavoro e sul mio modus operandi; per sottolineare il desiderio, profondo e insopprimibile, di andare aldilà dell’umano, della narrazione antropocentrica, dell’aporia fenomenologica. Per desoggettivizzare, fino alla scomparsa vera e propria dell’artefice (cosa che Blanchot stigmatizzava come unica possibilità per l’inverarsi di qualsiasi linguaggio), l’immagine e riconsegnarla al suo ruolo fondativo, avuto per millenni, di pura testimonianza dell’evento della relazione estetica. In un’epoca in cui si enfatizza quasi esclusivamente il “soggetto”, con le sue spesso ridicole trovate, a scapito della sostanza mobile del mondo e del linguaggio, la mia è una scelta consapevole di marginalità e controtendenza: far trionfare l’immagine, come patrimonio della conoscenza di tutti, a scapito della farsa del soggetto-artista. Vorrei che le immagini che escono, veicolate dalla mia persona, potessero, un giorno, avere la stessa forza testimoniale dei graffiti delle grotte di Lascaux o di Altamira, o della grande pittura di icòne, a cui, per forza di intenti, la “mia” pittura ha dovuto fare riferimento.
Per Florenskij le icone sono il confine fra mondo visibile e mondo invisibile, il luogo dove si manifesta una pittura pura in cui gli oggetti sono “prodotti di luce”. Nelle tue opere ritrovo quella trepidazione sacra con la quale l’uomo antico osservava la natura, evocando una dimensione di luce e purezza. Ci puoi raccontare come nasce questa profonda strutturazione simbolica che purifica le forme e le riporta alla conoscenza/visione come liberate di materia?
Quello che mi muove, e che forse mi ha sempre mosso, è la consapevolezza che ciò che voglio dire non può essere detto, che quello che voglio mostrare non è visibile e che i mezzi che l’arte mi offre sono assolutamente inadeguati a questa missione. Ma anche che non ho altro, non ho che le parole e le immagini e che è attraverso di esse che deve passare tutto questo indicibile e irraffigurabile. La pittura di icòne, come la grande pittura italiana fino ai primi immensi quattrocentisti ( per me, in particolare, il Beato Angelico, Piero della Francesca, Giovanni Bellini e Masaccio) non ha ancora l’ossessione antropocentrica che sarà il segno di quasi tutta la pittura successiva, sino alle grottesche caricature attuali: resta, anche dopo la comparsa e l’opera dei grandi maestri che ho citato, la narrazione dell’invisibile e dell’irraffigurabile in un grande sforzo per mostrare la dissomiglianza. Credo che se volessimo cercare il fondamento psicologico-esistenziale, oltreché quello etico-estetico, delle “mie” opere occorrerebbe affondare le mani nella materia oscura delle mie paure e delle riflessioni nate da esse: soprattutto la paura della morte e l’ossessione del corpo. La radice psicologica della mia ricerca di purezza probabilmente sta proprio nel tentativo di realizzare immagini incorruttibili, di una purezza minerale e, per questo, sottratte alla transitorietà e ai segni del tempo.
Uno degli ultimi cicli è dedicato al Jazz. In generale negli anni recenti hai affrontato sovente il dialogo tra pittura e musica cercando, sinesteticamente, di riportare sulla tela impressioni sonore. Come il suono, soprattutto quello destrutturato e libero del Jazz, riesce a comunicare uno stimolo visivo?
Per rispondere correttamente a questa domanda devo fare una premessa e una precisazione, entrambe essenziali. La premessa è che ho sempre dipinto ascoltando musica. Dal rock violento della giovinezza, alla insuperabile esperienza della new wave dei primi anni ‘80 (durante la quale anch’io ho suonato in una band: i Blak Ururu), alla successiva passione per il rock progressivo e di ricerca, per approdare , poi, alla classica e soprattutto al jazz, la musica è sempre stata con me, costituendo il tessuto invisibile delle emozioni e delle strutture su cui poggia la mia visionarietà costruttiva. Non cerco forme che descrivano la musica, non faccio dell’universo sonoro una narrazione in altro linguaggio. Semplicemente faccio vivere impressione sonora e segno in un unico abbraccio fondativo. Nel mio lavoro musica e immagine hanno un rapporto di perfetta consustanzialità. La precisazione è che le opere della serie “Jazz” non riguardano solo il jazz, ma sono omaggi a tutti quei musicisti che mi hanno donato tanto e influenzato profondamente: quindi anche musicisti classici, rock, pop, elettronici e altro. Tra questi vi è certamente una parte importante dedicata ai jazzisti, ma il titolo della serie ha un altro significato. Ho usato la parola “Jazz” per descrivere il senso dell’operazione estetica che sto facendo: sto, si potrebbe dire così, ri-suonando e re-interpretando molti dei miei vecchi motivi, attualizzandoli e portandoli ad una nuova consapevolezza e malinconia. È una operazione di redenzione delle forme del passato, molto complessa concettualmente: come se, riemergendo in me il desiderio fortissimo di riandare in un luogo dipinto, dovessi, ridipingendolo, emendarlo dei segni del passato per ridonargli un’aura di eternità, risolvendo formalmente quello che, nella vecchia opera, era, in qualche modo, come rimasto irrisolto. Penso ad esempio, come analogo, alla reiterazione di My favorite things di John Coltrane (a cui ho dedicato un quadro di “Jazz”), che il grande saxofonista suona e risuona sviscerando, attraverso la forma, il suo senso musicale fondamentale, senza peraltro, almeno credo, poter raggiungere alcun fondo, ma scoprendo la vertigine della ricerca iterativa e infinita. Ecco, sto cercando di fare una cosa simile, sulle mie stesse forme, sulle mie stesse strutture, sui miei stessi archetipi figurali, sulla mia stessa iconografia, quasi a cercare un “canone” impossibile.
Dalle recenti prove della tua pittura sembra emergere una struttura estrema di sintesi sia cromatica che formale, una dimensione fortemente astratta e spirituale. Quale prevedi sarà lo sviluppo della ricerca artistica dopo questa importante mostra che segna un po’ un confine/limite del tuo percorso?
Non credo di essere in grado di “prevedere” nulla, anche perché, per me, la pittura è immersa in un dinamismo incessante e imprevedibile. Certamente mi sembra di scorgere una tendenza ad approfondire le due tracce presenti in questa mostra: da una parte credo che continuerò, ancora per un po’, ad eseguire le mie meditazioni pittoriche attraverso quelli che ho chiamato “Esercizi Spirituali”, forse sino ad una esasperazione del vuoto contemplativo e alla massima sintesi formale, con una sottrazione costante e difficilissima di elementi figurali che mi condurranno, forse, sempre più vicino all’astrazione mistica e iconica di un pittore come Malevic; dall’altra parte sento che i miei “omaggi” alla musica sono appena iniziati e che il lavoro di reinterpretazione e codificazione della mia stessa iconografia è sterminato e che, presumibilmente, ci lavorerò a lungo. Questo è quello che riesco a vedere in questo momento, ma, come ben sappiamo, la pittura, in qualsiasi momento, può sterzare e condurti in un altrove che tu stesso non avevi neppur lontanamente previsto, specialmente in questa dimensione “Acheropita”, in cui le immagini si fanno da sole attraverso di me, provenendo da molto lontano. E “io” ne sono solo il tramite, il transito, la testimonianza, l’ascolto, la amorosa disponibilità a farle apparire.
Enrico Lombardi. Acheropita
a cura di Diego Galizzi
organizzazione Museo Civico delle Cappuccine
Col patrocinio dell’Istituto per i Beni Culturali dell’Emilia Romagna
14 aprile – 1 luglio 2018
Museo Civico delle Cappuccine
Via Vittorio Veneto 1/a, Bagnacavallo (RA)
Orari: lunedì e post festivi chiuso;
martedì e mercoledì 15/18; giovedì 10/12 e 15/18;
venerdì, sabato e domenica 10/12 e 15/19
Info: +39 0545 280911/ 280913
www.museocivicobagnacavallo.it
www.lombardienrico.it