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Marco Senaldi da Piacenza

Com’è cambiato il tuo modo di lavorare?
Adesso (metà maggio) il lockdown è (semi)finito – o almeno, speriamo. Quindi la vita sta riprendendo, liberi tutti e via dicendo. Ma in pieno lockdown, non so se ricordate, girava sui social una doppia foto del tutto indicativa: si vedeva un centro storico da tipica cittadina lombarda, vuoto in entrambe le immagini. La didascalia diceva: “Codogno prima del lockdown” – “Codogno durante il lockdown”. Praticamente, non era cambiato niente: non c’erano folle prima, figuriamoci durante. Ecco, più o meno una battuta simile si potrebbe applicare anche al sottoscritto: le due foto sopra la didascalia “Senaldi prima del lockdown” e “Senaldi durante il lockdown” sarebbero esattamente identiche. Infatti, se prima andavo tutti i giorni da casa a studio (400 metri), e viceversa, lo stesso ho fatto durante il lockdown (con regolare autocertificazione, eh!, dato che in studio ho il collegamento wifi necessario per fare DAD didattica a distanza). Questo fatto però dovrebbe far riflettere: io infatti non abito in una città qualunque, ma a Piacenza, pochi chilometri da Codogno e uno dei centri più colpiti, in termini di vittime, dalla pandemia. E posso confermare che qui il Covid è andato giù duro, dato che, a differenza di molti che ne parlano per sentito dire, io ho visto cari amici e colleghi rischiare davvero la vita per colpa del virus – e in taluni casi, perderla. Il virus però mi ha insegnato che vivere in una media cittadina di provincia invece che in una grande città (come Milano o Torino), ha avuto, una volta tanto, i suoi vantaggi: stare in un centro storico tipicamente italiano (cioè bellissimo, con edifici che vanno dal Medioevo al Rinascimento al Razionalismo in pochi metri) rende la vita più bella e facile; e, durante la pandemia, avere un luogo di lavoro (in un palazzo storico) separato dall’abitazione ha fatto la differenza fondamentale – il che è stato possibile grazie agli affitti moderati che qui (a 45’ da Milano) vengono ancora praticati.
È una lezione che mi piace tanto: per anni, non appena confessavo dove abito e lavoro, ho dovuto subire gli sguardi di compatimento dei miei colleghi, i sorrisini di commiserazione, se non proprio l’invito bello chiaro a spostarmi in qualche centro “che conta”. Avendo abitato anni a Milano e a Roma, e quindi sapendo benissimo di cosa stiamo parlando, devo dire che stavolta ho compatito io tanti amici e colleghi che hanno passato, tapini, due simpatici mesi agli arresti domiciliari, asserragliati in qualche terzo piano di qualche orrendo condominio anni 70 con le pareti di forato, magari senza prendere l’ascensore per prudenza estrema, nella “celebre metropoli culturale” – dove tutto ha chiuso. Beati loro… soprattutto quando a ottobre il covid si ripresenterà puntuale come la dichiarazione dei redditi (… ma dai scherzo, speriamo di no).

Quando tutto questo finirà: una cosa da fare e una da non fare mai più.
La domanda mi piace e ci stavo proprio pensando a cosa fare di nuovo e a cosa non fare mai più. Poi però l’ho riletta meglio e purtroppo qualcosa non torna: “Quando tutto questo finirà” è una illazione poco credibile: che significa di preciso? Le pandemie sono esattamente come le crisi economiche durante il capitalismo: da che esiste, si susseguono con una regolarità sconcertante, e, anche se tra una e l’altra c’è sempre un piccolo periodo di apparente calma, ne costituiscono l’essenza, mentre sono le fasi stabili a costituire l’eccezione. Lo stesso per le pandemie da quando esiste la globalizzazione: basta dare una scorsa al bel libro Spill Over di David Quammen per capire che il ciclo epidemico mondiale potrà solo crescere, diventare sempre più intricato e invadente, mentre i momenti di relativa stasi saranno solo intervalli sempre più brevi in una ecosfera contaminata da virus di ogni sorta. Ecco dunque una cosa da fare: impedire all’agenda mediatica di dettare i nostri pensieri; oggi parliamo solo di covid e talvolta di ebola, ma nessuno dice una parola ad esempio della febbre dengue, che ogni anno contagia qualcosa come 100 milioni di persone soprattutto in Sud America (dati OMS) rispetto per capirci ai 5 milioni di contagi del Covid. E siccome aspettarsi “che tutto questo finirà” è una pia illusione, ecco invece la cosa da non fare mai più: illudersi.

Ad oggi quali sono state per te le conseguenze immediate della diffusione del Covid-19 sul tuo lavoro e quali pensi possano essere le conseguenze a lungo termine?
Per rispondere a questa domanda ti rimando all’instant e-book che ho appena pubblicato per PIEMME edizioni, non per vanagloria, ma per il titolo, che suona L’astuzia del Coronavirus. Non è una spacconata, è proprio così: il covid non è solo terribile, ma pure furbo; o meglio, per quanto sia un essere del tutto semplice, il virus ci chiede non solo comportamenti “intelligenti”, “razionali”, ma ci “costringe” a strategie astute – almeno quanto lui. Le conseguenze a breve termine perciò saranno irrisorie: appena il lockdown si smorzerà ecco tornare le classiche abitudini, dall’inutile vernissage alla noiosa presentazione dell’ennesimo superfluo catalogo, alla kermesse con più eventi di quelli a cui chiunque possa realmente partecipare, e via elencando in abbuffate artistiche da cultural-discount. Questo vorrà dire che non abbiamo imparato assolutamente nulla – fino alla prossima, più dura lezione. E questo è un peccato, perché invece di astuzie da imparare a lungo termine ce n’erano molte, ma, soprattutto, almeno questa: che in arte, come in quasi tutto, conta più la qualità della quantità.

Marco Senaldi: come dice la canzone, sono nato oltre mezzo secolo fa “nel Paese delle mezze verità”. Nonostante questa sciagura (che però è anche una benedizione mascherata) sono stato affascinato da due prodotti tipicamente italici: il pensiero e le immagini – che poi ho scoperto si chiamavano filosofia e arte. Dovrei dire che ho fatto il critico, il curatore, il docente, lo scrittore, l’autore televisivo, ma sono patetici eufemismi. Tutto ciò che ho fatto è cercare di articolare queste due dimensioni, che a me, alla fine, sembrano le due facce di una stessa medaglia: un pensiero che si esprime per immagini, e delle costellazioni visive che costringono a riflettere. Così, quando ho curato mostre (come Cover Theory, 2003) ho insieme prodotto dei concetti (come il concetto di “cover”, distinto da quelli di copia, remake o variazione); quando ho realizzato programmi tv (come Genio e sregolatezza, per RAI Storia, nel 2019) ho cercato di ridefinire categorie storiche date per acquisite; e quando ho scritto, ho concepito i miei saggi come libri di avventure, sia pur mentali, e come libri illustrati, sia pur non solo di figure. Come nel caso di quello che mi è costato meno fatica, a dispetto della mole, cioè Duchamp. La scienza dell’arte (630 pp.), uscito l’anno scorso da Meltemi, dedicato a un personaggio di cui un intervistatore, una volta terminato il colloquio, disse: “Credevo di incontrare un artista e invece ho trovato un filosofo”.

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