PARIGI | Philharmonie de Paris | 30 marzo – 21 agosto 2016
di STEFANO BIANCHI
Peel slowly and see. Sbuccia lentamente e guarda. Seguendo lo slogan coniato da Andy Warhol ecco che la banana, logo “velvettiano” per eccellenza, scopre la rosea polpa. A mezzo secolo dalla sua registrazione, quell’ellepì intitolato The Velvet Underground & Nico suona ancora “oltre”: nichilista, trasgressivo, avanguardistico.
Nel 1982 Brian Eno dichiara: «Il primo album dei Velvet Underground? All’epoca ha venduto solo 30.000 copie, ma tutti quelli che l’hanno comprato hanno formato una band».
Cinquant’anni dopo, celebrando quel voyeuristico frutto del peccato disegnato da Warhol e quel pugno di canzoni straordinariamente maledette (da I’m Waiting For The Man a Heroin; da Sunday Morning a Venus In Furs) Parigi rende omaggio alla band che più di ogni altra, malgrado la breve esistenza (1965-1970) ha marchiato a fuoco la storia del rock, dell’arte e della cultura “popular”. Lo fa con la “mise-en-scène” multimediale, arricchita dalle installazioni create dalla designer Matali Crasset, di The Velvet Underground – New York Extravaganza inanellando suoni leggendari; centinaia di foto scattate da Nat Finkelstein, Donald Greenhaus, Lisa Law, Gerard Malanga, Billy Name, Adam Ritchie, Steve Schapiro e Stephen Shore; sei film appositamente realizzati per la mostra; pellicole underground girate da Edward English, Alexander Keewatin Dewdney, Marie Menken, Barbara Rubin, Andy Warhol e Danny Williams.
Il percorso espositivo, suddiviso in sei sezioni, ha il suo prologo in Welcome To America che si concentra su quegli intellettuali e quegli artisti (primo fra tutti Allen Ginsberg, poeta della Beat Generation) che dopo il secondo conflitto mondiale rigettano la società dei consumi e il suo stile di vita improntato sulla “sunshine family”, perfetta come la pubblicità che imperversa sui media, auspicando la fusione alternativa di tutte le forme d’arte. È in questo “humus” fertile e rivoluzionario (a raccontarcelo è Reed & Cale, The Childhood Of Art) che Lou Reed e John Cale s’incontrano a New York facendo collidere e poi dialogare le opposte personalità: rockettara quella del vocalist e chitarrista americano, classico/accademica quella del violista e tastierista gallese.
La terza sezione, New York Spirit, narra la metropoli d’inizio Anni ’60: colpita dalla recessione e dai conflitti sociali; popolata (nel Greenwich Village) da sperimentatori della musica quali La Monte Young, registi (Jonas Mekas), fotografi (Fred McDarrah) e poeti (Piero Heliczer) che ruoteranno attorno al pianeta Velvet Underground.
Factory Years, invece, coglie la nascita della band (a Lou Reed e a John Cale si aggiungono il chitarrista Sterling Morrison e la batterista Maureen Tucker, che sostituisce Angus MacLise); i primi concerti innervati dalle danze sadomaso di Gerard Malanga e dalle psichedeliche proiezioni dell’Exploding Plastic Inevitable; l’incontro con Andy Warhol (complice la filmmaker Barbara Rubin) dopo l’esibizione al Cafe Bizarre; l’assidua frequentazione della Factory e la pubblicazione nel 1967 del Banana Album, prodotto dallo stesso Warhol e arricchito dalla sulfurea voce della tedesca Christa Päffgen, in arte Nico, già modella e attrice nella Dolce Vita di Federico Fellini.
Dopo il suo divorzio, seguito da quelli di Warhol e di Cale (all’indomani dall’uscita di White Light/White Heat), Lou Reed prende in mano le redini del gruppo e ingaggia il polistrumentista Doug Yule. Con gli album The Velvet Underground (1969) e Loaded (1970), le Reinventions Of The Velvet Underground pedinano suoni più intimisti e meno sperimentali. Fino all’abbandono di Reed e all’inevitabile scioglimento che, paradossalmente, proietterà la band nel mito. A dimostrarlo è la sezione conclusiva, Echos & Heritage, che mette in fila musicisti e gruppi capaci di raccogliere l’eredità “velvettiana”: da David Bowie a Brian Eno e Nick Cave, passando per New York Dolls, Television, Talking Heads, Jesus and Mary Chains, R.E.M., Cowboy Junkies, Sonic Youth e Strokes.
The Velvet Underground – New York Extravaganza
a cura di Christian Fevret e Carole Mirabello
30 marzo – 21 agosto 2016
Philharmonie de Paris
221, Avenue Jean-Jaurés, Parigi
Info: 0033 1 44844484
www.philharmoniedeparis.fr